La festa delle fave

Uno degli strumenti più concreti ed efficaci che utilizzano alcuni comuni virtuosi per tutelare il territorio e costruire processi di agricoltura alternativa sono, senz’altro, le De.Co. (denominazioni comunali). Un modo per recuperare tradizioni perdute dando loro un futuro sostenibile, di comunità. Ecco l’articolo tratto da Viaroma che racconta l’esperienza nel Comune di Fratte Rosa (PU)

Tutto ha avuto inizio da venticinque semi ritrovati nella cantina di un contadino. Era il 2000. La storia della favetta di Fratte Rosa è ricominciata da quel pugno di vita. E sul crinale che dal piccolo comune, passando per Pergola, Barchi, Mondavio, scende al mare fino a Marotta, viene coltivata di nuovo da pochi agricoltori, appassionati e motivati. In una decina di ettari questo antico legume, riprodotto anche nelle nature morte del pittore fanese Carlo Magini nel Settecento, ha trovato di nuovo la sua terra, quella dei “lubachi”. Una terra che lo rende speciale grazie all’argilla che lo arricchisce di gusto, di polifenoli e antiossidanti. Una specialità unica in Italia.

In questi giorni, tra i “lubachi” biancastri, si raccoglie la favetta che ha un piccolo baccello con tre o quattro semi grandi e tondeggianti. «Non uno di più – spiega Claudio Carboni dell’associazione Favetta di Fratte Rosa -. Questo tipo di terreno le dà una dolcezza inconfondibile che non si ritrova certo nelle fave del supermercato. Per questo è nata la nostra associazione, che coinvolge una quindicina di persone, tra produttori e simpatizzanti: da una parte lavoriamo per la conservazione dell’ecotipo, dall’altra, per diffonderla e farla conoscere». Da quel ritrovamento di quindici anni fa questi agricoltori ne hanno fatta di strada. I semi sono stati riportati in purezza e studiati con l’aiuto dell’Istituto di Monsampolo del Tronto, dell’università Politecnica delle Marche e dell’Agenzia Servizi Settore Agroalimentare delle Marche (Assam). Ne è nato un marchio di identificazione e nell’ottobre dell’anno scorso sono stati depositati nell’Arca dei Semi di Slow Food, dove sono custoditi circa 2.500 semi diversi provenienti da tutto il mondo.

In questi terreni difficili, durante la mezzadria, i contadini, per avere una scorta in dispensa, le hanno sempre coltivate in aree periferiche del campo, nascoste all’occhio del padrone o sotto i filari delle viti. Col tempo, nella valle del Cesano, le fave di Fratte Rosa sono diventate protagoniste della tavola. All’inizio di maggio vengono mangiate fresche, a fine mese “baggiane”, ancora verdi ma ormai dure, giuste da cuocere o mettere sott’olio con aglio o finocchietto. A fine giugno, invece, quando ormai è secca sulla pianta, diventa regina delle zuppe e ingrediente essenziale per i “tacconi”. «L’origine di questo nome non è certa – spiega Rodolfo Rosatelli, trasformatore e “agricoltore custode” -. In questi posti c’era anche una tradizione di calzolai. E, forse, questa pasta all’uovo fatta con farina di grano e di fave, simile a una tagliatella corta ma più spessa e quadrata, ricorda il ritaglio del tacco delle scarpe. Comunque sia, i contadini da queste parti hanno sempre allungato la scarsa farina di grano con quella delle favette per fare pane, pasta e crescia. E senza saperlo hanno dato vita a piatti ricchi di proteine. Oggi abbiamo recuperato tutto questo ed è importante, perché da un pugnello di semi ritrovati da un contadino siamo riusciti a recuperare una varietà e a costruire una filiera che sa valorizzare un intero territorio». La favetta di Fratte Rosa sarà con l’Assam a Expo e protagonista dell’omonima festa che si tiene a Torre San Marco di Fratte Rosa sabato 9 e domenica 10 maggio.