Uno più uno uguale tre
La proposta di legge dell’11 novembre 2015 sull’obbligatorietà delle fusioni di comuni al di sotto dei 5000 abitanti (modifica al testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, in materia di popolazione dei comuni e di fusione dei comuni minori) viene scritto nascere <<dall’esigenza di trovare un efficace meccanismo per ridurre l’elevata frammentarietà dei comuni italiani e favorire il raggiungimento da parte di questi ultimi di dimensioni più adeguate, atte cioè a consentire un netto miglioramento della qualità e dell’efficacia dei servizi offerti ai cittadini>>.
L’obbligatorietà delle fusioni (che rinuncerebbe totalmente al principio della volontarietà sinora incentivato), proposta come la migliore strada percorribile, anche per l’esercizio di funzioni che prima erano in capo alle province, non può ovviamente trovare d’accordo la nostra Associazione Borghi Autentici d’Italia.
Fusione non significa automaticamente risparmio, razionalizzazione, qualità ed efficacia dei servizi offerti ai cittadini. Anche lo studio del Dipartimento dell’Interno, Direzione Generale della Finanza Locale, del febbraio 2015, dal titolo “FUSIONI: Quali vantaggi? Risparmi teorici derivanti da un’ipotesi di accorpamento dei comuni di minore dimensione demografica”, annuncia continuamente “ipotesi di risparmio” ed è chiaro che le ipotesi economiche basate esclusivamente sulle valutazioni numeriche non considerano l’oggettività delle singole situazioni territoriali.
Sempre in quello studio, si analizzano i vari incentivi messi a disposizione dal Legislatore per favorire le fusioni di comuni negli anni, compresi contributi straordinari stabiliti con il decreto del Ministero dell’Interno del 21 gennaio 2015 che riguarda le fusioni a partire dal 2014. Al contempo si contano nell’anno 2014, n.26 fusioni di comuni realizzate che complessivamente riguardano n.62 (ex) Comuni; nel 2015 (www.tuttitalia.it) si contano 7 nuove fusioni che complessivamente hanno soppresso 17 Comuni e finora nel 2016 sono nati 25 nuovi comuni attraverso la fusione amministrativa di 68 Comuni.
Il processo di modifica territoriale è stato intrapreso tramite il referendum consultivo, ascoltando dunque i cittadini, e previo studio di fattibilità e laddove i cittadini abbiano democraticamente ritenuto conveniente sotto tutti i punti di vista, la fusione e il ridisegno delle istituzioni locali, si è proceduto in tale senso.
Le fusioni del 2016 accorpano i vecchi comuni in aggregazioni che solo in tre casi superano i 5000 abitanti; le fusioni del 2015 solo in un caso superano i 5000 abitanti; è “andata meglio” nel 2014 dove alcune fusioni hanno creato comuni con popolazione anche superiore ai 10.000 abitanti e su tutte spicca il nuovo comune di Valsamoggia, di oltre 29mila abitanti. Vi è da dire che queste riorganizzazioni territoriali si sono basate, su vari presupposti: su abitudine consolidata a collaborare insieme (anche in ambito di unione), su affinità economico produttive e su necessità di maggiore impatto nell’offerta territoriale, in particolare in campo turistico, su radicate identità di valle, su vocazioni territoriali similari, e tanto altro ancora.
Considerando che la fusione fra comuni è tuttora incentivata, non avrebbe senso che, se ritenuta conveniente ed idonea a migliorare complessivamente la qualità della vita dei cittadini, a migliorare il presidio del territorio in particolare di quei comuni di grandi superficie e bassissima densità abitativa, e a razionalizzare la spesa, la fusione non fosse proposta e messa ai voti; la razionalizzazione dei servizi e delle funzioni, avviene e sta avvenendo già attraverso le unioni di comuni, ma è da considerare che non necessariamente la spesa della pubblica amministrazione diminuisce e si migliorano le performance del territorio, anche con tale strumento. Non dappertutto, insomma.
Obbligare i comuni al di sotto dei 5.000 abitanti a fondersi in comuni con popolazione superiore ai 10.000,00 significherebbe in moltissimi casi, se ci basiamo sui confini territoriali attualmente presenti e parimenti sulla densità abitativa dei piccoli comuni, avere comuni con una vastità territoriale considerevole e tale da dovere istituire nuovi municipi e nuovi servizi (e personale in grado di realizzarli e gestirli) sul territorio (per intenderci quegli stessi servizi che stanno chiudendo o si esauriscono per carenza di risorse), forse ci sarà bisogno del prosindaco, i problemi delle “buche sulle strade” non si risolveranno comunque, gli scuolabus continueranno a dovere fare i chilometri che fanno ora, se non di più, e in questo caso i bambini saranno obbligati ad alzarsi alle 5 e a tornare a casa chissà a che ora per non perdere la fermata, ecc. Dunque tutte le presunte economie e presunte razionalizzazioni derivanti dalla fusione, obbligata per giunta, verrebbero ad annullarsi, o peggio.
Sono solo esempi, ma basati sulla realtà dei piccoli comuni che hanno ancora la volontà di presidiare il territorio, con amorevolezza e responsabilità e non con mero esercizio di potere individuale da parte dei Sindaci. Continuare a parlare di campanilismo dei comuni come il grande malessere italiano da “tenere a bada” è ingeneroso. E’ vero, in Italia c’è molto spesso la difficoltà a collaborare e la sindrome Nimby colpisce anche noi, ma ormai si agisce diffusamente cooperando in area vasta, i patti di fiume, piani e progetti coordinati fra comuni, e la pianificazione urbanistica e territoriale regionale sprona i comuni a fare rete.
E’ necessario dunque non generalizzare. La fusione non impedirà automaticamente lo spopolamento degli (attuali) piccoli comuni svantaggiati perché non cancellerà automaticamente le distanze dai servizi di base, dalle scuole, dalle università, dai luoghi di lavoro, e non farà nascere automaticamente la capacità e le conoscenze per fare impresa fra i nostri giovani, che è quella che spesso manca. Le fusioni hanno i loro pro e i loro contro e occorre adeguatamente ponderarne la nascita caso per caso, utilizzando il tempo necessario, ascoltando e coinvolgendo i cittadini e realizzando caso per caso uno studio di fattibilità in grado di fare emergere e conseguentemente fare comprendere ai cittadini il percorso da realizzarsi e la nuova situazione che si verrà a creare. Da questo punto di vista le unioni di comuni sono un ottimo predellino di lancio.
Sui piccoli comuni prioritariamente occorre che si investa per introdurre gli strumenti e l’assistenza tecnica e formativa necessaria per migliorare la performance amministrativa, assistendoli nella razionalizzazione della spesa e per instillare una maggiore collaborazione, anche economica e di “auto-mutuo-aiuto” fra amministrazioni e cittadini e, ad esempio, proprietari di seconde case.
Verifichiamo piuttosto che non sia più coerente con quanto accade in Italia oggi, circa le fusioni, utilizzare parte dei fondi destinati ad esse e attingere a quota parte dei fondi europei, per creare dei gruppi competenti di intervento in grado di insegnare a razionalizzare la gestione dei territori, delle spese, degli introiti; formiamo i cittadini a migliorare la capacità di resilienza, incoraggiamo veramente i piccoli comuni a fare meglio e di più. Saranno quei cittadini, quei funzionari comunali e quegli amministratori, che una volta stabilizzati in una migliore qualità di vita e in una performante capacità tecnica e sociale di governo dell’istituzione e del territorio, a decidere o meno di ricostituire un nuovo comune forse più forte, attraente e competitivo di quello di origine.
Ivan Stomeo, sindaco di Melpignano (LE) e Presidente Borghi Autentici d’Italia