Rifiuti, non è tutto oro quel che è bio
Ci sono buone ragioni per pensare che nel prossimo futuro, ancor più che nel presente, lo sviluppo dell’Italia sia legato a doppio filo col prefisso bio. Se la farmaceutica italiana è da primato mondiale (recentemente superata solo dall’India nella produzione di principi attivi), è anche merito delle biotecnologie; nell’industria, specialmente quella interpretata in chiave green, il biotech nostrano presenta numerosi campioni. Anche nell’agricoltura italiana c’è eccellenza bio, ma in questo caso sta per biologico ed è tutta un’altra storia.
Nonostante tutte queste medaglie, o meglio per continuare a incamerarne altre facendo davvero del biotech uno dei driver per lo sviluppo italiano, è però altrettanto importante riconoscere e migliorare gli attuali limiti. Meritoria in tal senso l’analisi recentemente diffusa da Adnkronos sugli imballaggi biodegradabili e compostabili, di cui da sempre anche greenreport si occupa.
Dopo l’introduzione di bottiglie, shopper e stoviglie “biodegradabili”, il tema torna oggi alla ribalta della cronaca in vista del prototipo che la Granarolo presenterà in occasione dell’Expo: una bottiglia per il latte «compostabile al 100% in 12 settimane, non ancora in commercio».
Tralasciando il deleterio fenomeno dei materiali spacciati truffaldinamente nel mondo come bioplastiche senza averne le caratteristiche, è qui interessante soffermarsi sull’intero ciclo di vita degli imballaggi più propriamente bio. Tutti nascono da un nobile presupposto: offrire un sostituto a un materiale oggi indispensabile – la plastica, o meglio alcuni tipi di plastiche –, producendo oggetti da fonti rinnovabili (vegetali) piuttosto che da idrocarburi. Considerando però gli imballaggi lungo l’intero ciclo vita, purtroppo i bilanci ambientali ed economici non sempre sono così cristallini.
Come spiega all’Adnkronos Massimo Centemero – direttore del Cic, Consorzio italiano compostatori – a oggi «nessuno si è preoccupato del fine vita di questi materiali», e «non tutti gli impianti sono strutturati per ricevere tutte le tipologie di manufatti compostabili». Sul territorio troppo spesso mancano «le condizioni tecniche, tecnologiche e operative» per trattarli, e questi materiali finiscono per inficiare non solo sulla qualità del compost ottenibile (fattore già molto spesso problematico), ma anche su altre catene di valore.
«Come Revet – spiega in un caso concreto il portavoce dell’azienda toscana, Diego Barsotti – abbiamo effettuato una campionatura sui bioshopper nel 2010, che erano risultati essere il 15% del totale degli shopper. Quando i bioshopper vengono erroneamente conferiti nei contenitori della plastica, le macchine selezionatrici lo leggono come plasmix, che viene poi avviato a riciclo nell’impianto di Revet Recycling e lì, dopo la triturazione e il lavaggio, viene scartato. Non esiste una soglia di tolleranza, ma uno spreco di risorse: il costo della raccolta e della selezione da parte di Revet, il costo della triturazione e lavaggio da parte di revet recycling, il costo dello smaltimento (in discarica o a recupero energetico) da parte di revet recycling. Stimiamo che tale percentuale di bioshopper sia confermata ancora oggi», e così materiali progettati per dare una svolta sostenibile al mondo degli imballaggi finiscono spesso in discarica o a termovalorizzazione.
Senza dimenticare che, come sottolinea Silvia Ricci, responsabile campagne dell’associazione Comuni virtuosi, «il Pla che finisce nel flusso del Pet in quantità oltre ad una certa percentuale contamina irrimediabilmente intere partite». Uno spreco di materia doppio. Meglio dunque rinunciare in toto a questi materiali? Gli assolutismi sono e rimangono tra i nemici più acerrimi della sostenibilità, e Giorgio Quagliuolo, presidente di Corepla (il Consorzio per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica), mostra anzi di puntare forte sul settore: «Abbiamo in cantiere – annuncia oggi proprio all’Adnkronos – delle iniziative, che a breve renderemo pubbliche, per destinare risorse, abbastanza consistenti, al mondo degli imballaggi biodegradabili e compostabili». Vero è che nel settore occorre ancora, in Italia, migliorare non solo la risposta industriale ma anche la comunicazione al cittadino, e infine rendere più funzionali le filiere dedicate coi gestori locali. Certo rimane un paradosso lo stanziare fondi solo per le bioplastiche, quando ancora non ce ne sono per il riciclo di segmenti critici delle plastiche tradizionali (come quelle eterogenee, riciclate in pochi centri virtuosi e altrimenti destinate a incenerimento).
«Concludendo con una riflessione generale – chiosa Ricci – forse in questo momento i cittadini sono più interessati a sostenere quelle scelte aziendali sostenibili che sono in grado di comprendere e di valutare per gli effetti positivi che possono essere dimostrati e misurati su comunità e ambiente lungo l’intera filiera. Questa è la sfida della sostenibilità che le aziende dovrebbero cogliere». E questo è anche il nostro auspicio.
Articolo di Luca Aterini- Greenreport.it