Il segreto di Pulcinella
Il cortocircuito di una norma che parla di stop al consumo di suolo e produce il risultato esattamente opposto. Nell’articolo di Luca Martinelli per Altreconomia svelato uno dei tanti segreti di Pulcinella: la politica degli annunci è molto diversa dalla pratica delle azioni concrete.
Il TAR della Lombardia ha bocciato una variante urbanistica che rendeva “non edificabili” alcune aree della città. Secondo il giudice amministrativo, la legge regionale lombarda contro il “consumo di suolo” limiterebbe, nei fatti, il diritto degli enti locali di pianificare il territorio. Anche quando gli interventi vanno a ridurre le superficie urbanizzibili. Ecco perché il caso potrebbe arrivare di fronte alla Corte Costituzionale.
La legge lombarda “per la riduzione del consumo di suolo” (la numero 31 del 2014) non è efficace, perché -secondo la lettura che ne ha dato Paolo Pileri dalle pagine di Altreconomia- non “tutela” ma “trasforma” i terreni liberi. E lo ha dimostrato, alla prima prova dei fatti, un ricorso al TAR contro una variante urbanistica che avrebbe limitato il consumo di suolo approvata dal Comune di Brescia, ed è stata bocciata.
L’amministrazione del diciassettesimo Comune più abitato del Paese (quasi 200mila abitanti, con una densità abitativa simile a quella di Roma), infatti, aveva “osato” ridurre -con una delibera del luglio del 2015- l’edificabilità nell’area del Parco di San Polo, ri-classificando alcuni lotti, di proprietà di Francesco Passerini Glazel e di Maria Annunciata Passerini Glazel Pagano, che per questo avevano fatto ricorso al Tribunale amministrativo regionale.
In particolare, sarebbero venuti a mancare quei terreni edificabili necessari a far ricadere un diritto a costruire immobili per una superficie pari a 40.168,99 metri quadrati -palazzine per un numero complessivo di 400 appartamenti da 100 metri quadrati l’uno-. Con la variante di riduzione, il Comune in particolare è andato a trasformare quattro “lotti”: due sono stati classificati come “aree agricole di cintura”; uno inserito tra le “aree di salvaguardia e mitigazione ambientale”; l’ultimo, invece, è destinato ad ospitare infrastrutture pubbliche (il parcheggio al servizio della metropolitana).
Per il TAR, che a metà gennaio 2017 ha diffuso la propria sentenza, il Comune di Brescia non poteva approvare quella variante. Non può -secondo la legge regionale- esercitare il proprio “diritto a pianificare”, come sottolinea ad Altreconomia il sindaco di Brescia, Emilio Del Bono.
Il motivo? In attesa che la Regione completi le direttive regionali in merito all’applicazione della legge del 2014, si è di fronte a una moratoria, un periodo transitorio che di fatto congela la potestà pianificatoria dei Comuni. Per dirla con i giudici, “da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT (Piano di governo del territorio, ndr) per la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di aree libere”. La moratoria dura 30 mesi, e ha l’effetto -spiega Del Bono- di “annullare di fatto l’azione urbanistica di un ente per un intero mandato amministrativo, che dura 5 anni”.
A questo proposito, Legambiente Lombardia, in una nota a commento della sentenza, specifica come “il piano territoriale regionale attuativo della legge, che nell’intenzione del legislatore avrebbe dovuto stabilire l’obiettivo regionale di riduzione del consumo di suolo, è al palo: ad oltre due anni dall’approvazione della legge, infatti, non è ancora all’ordine del giorno delle Commissioni del Consiglio Regionale. Eppure avrebbe dovuto essere lo strumento da approntare rapidamente per dar modo a tutte le province e, a cascata, ai comuni della Lombardia, di adeguare i rispettivi strumenti urbanistici agli obiettivi, peraltro molto poco ambiziosi, di limatura delle previsioni di nuovo consumo di suolo”.
“Il percorso che ha portato il Comune di Brescia ad adottare la variante del Parco di San Polo era stato avviato nel 2014, prima dell’approvazione della legge regionale -racconta ad Ae Emilio Del Bono-: quando abbiamo iniziato il nostro percorso amministrativo ci siamo resi conto che dal Dopoguerra tutti gli strumenti urbanistici approvati a Brescia inserivano nuove superfici lorde di pavimento, ed abbiamo voluto agire in contrapposizione, anche perché le dinamiche demografiche della città e quelle del mercato immobiliare ci portavano a fare considerazioni di questo tipo”.
Spiega Del Bono che grazie una serie di varianti -una delle quali è quella oggetto del ricorso dei Passerini Glazel- il Comune di Brescia ha ridotto del 42% la superficie lorda di pavimento realizzabile secondo il PGT del 2012, da 1.122.740 metri quadrati a 650.000 mq, e contemporaneamente è andato ad incentivare gli interventi di riqualificazione e rigenerazione del patrimonio esistente abbattendo gli oneri di urbanizzazione per questo tipo di interventi, fino a un massimo dell’80% in alcuni quartieri della città.
Oltre al ricorso già deciso a metà gennaio, sulle varianti urbanistiche del Comune di Brescia ne pendono altri: complessivamente, sono 38. Contro la prima sentenza, però, l’ente ha deciso di presentare appello di fronte al Consiglio di Stato, “considerando che la legge regionale presenti anche profili di incostituzionalità -sottolinea Del Bono, che è avvocato ed è stato parlamentare per tre legislature-. La domanda che poniamo è questa: una Regione può limitare i diritti di un Comune al punto da annullare la facoltà di intervenire sulla pianificazione? Ciò non rappresenta un’invasione di campo?”.
Secondo Paolo Pileri, professore associato di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, editorialista di Altreconomia a autore del libro “Che cosa c’è sotto”, “è possibile immaginare che i giudici del TAR abbiamo tuttavia voluto offrire ai colleghi del Consiglio di Stato un assist, scegliendo in modo accurato le parole da usare, e richiamando nelle quindici pagine della sentenza alcune delle definizioni contrarie al buon senso e alla natura che discendono dall’applicazione della legge regionale sul consumo di suolo. Se una legge è fuorviante o ambigua, il suolo non lo salva”.
Pileri cita alcuni esempi: “È scritto che ‘la definizione normativa di consumo di suolo […] ha carattere formale, ossia prende in considerazione il territorio non sulla base dello stato dei luoghi ma per la qualifica che ne è stata data dalla zonizzazione’, ma non è vero che un campo coltivato è una palazzina solo perché così lo designa il PGT. O, ancora, che ‘…alle aree urbanizzate sono assimilate le aree urbanizzabili (ossia quelle che, seppure di fatto ancora libere, sono idonee, secondo la disciplina urbanistica, a ospitare diritti edificatori)’, anche perché i diritti edificatori non esistono senza un piano attuativo approvato o una concessione rilasciata”.
C’è, infine, un ultima nota: “Il consumo di suolo non è un concetto naturalistico ma giuridico” si legge nella sentenza. Come aveva scritto nell’aprile dello scorso anno Paolo Pileri sulle pagine di Altreconomia, “la superficie urbanizzata e quella urbanizzabile diventano invece nella legge, di fatto, dei sinonimi”, e le motivazioni della sentenza lo confermano: consumo di suolo è definito dalla trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio. Non servono cantieri, né ruspe.