Il segreto del “Crying Indian”: quando l’industria creò le campagne di pulizia per evitare legislazioni sgradite

Dietro l’iconico spot ambientalista del “Crying Indian” — celebre simbolo della lotta all’inquinamento negli Stati Uniti negli anni 70 — si celava in realtà una strategia astuta: Keep America Beautiful (KAB), l’organizzazione promotrice, era fondata e finanziata dalle grandi aziende produttrici di imballaggi e bevande usa e getta. Il loro vero scopo non era prevenire i rifiuti alla fonte, bensì spostare la responsabilità dell’inquinamento dalle corporazioni ai singoli cittadini e promuovere un modello di “consumo infinito”.
Chi guardava la televisione in America in qualsiasi momento negli anni settanta ricorda l’indiano più famoso d’America protagonista di quello che è stato il più noto prodotto pubblicitario trasmesso dal servizio pubblico. Lo spot è stato trasmesso per la prima volta in televisione nel Giorno della Terra nel 1971, e ha lasciato un’impressione duratura sugli spettatori. L’”Indiano che piange” (che incidentalmente era interpretato da un italoamericano come vedremo) divenne un simbolo in un movimento ambientalista che esortava la gente comune a fare la propria parte nell’affrontare l’inquinamento. Nel corso degli anni, è stato parodiato in programmi televisivi come “I Simpson” e “King of The Hill”.
Nella sua versione originale si vede il protagonista, un nativo americano vestito in pelle di daino navigare in canoa attraverso un fiume inquinato da detriti galleggianti, con fabbriche sullo sfondo che emettono fumo e su una riva disseminata di rifiuti. L’Indiano tira la sua barca su una riva cosparsa di spazzatura e guarda verso una superstrada. “Alcune persone hanno un profondo, duraturo rispetto per la bellezza naturale che un tempo era questo paese ” commenta. A queste parole, qualcuno getta un sacco di spazzatura da un’auto in corsa che si disperde ai piedi dell’indiano. “E alcune persone no” dice una voce fuori campo. Lui guarda la telecamera per la scena clou in cui una singola lacrima gli scende sulla guancia. Nasce così il claim che sancisce la responsabilità del cittadino rispetto all’inquinamento: “Le persone causano l’inquinamento. Le persone possono fermarlo”.
Questa operazione giudicata come “greenwashing” ante-litteram da commentatori indipendenti fu concepita per opporsi attivamente a legislazioni sul riuso e sul deposito cauzionale che avrebbero minacciato i profitti del settore imprenditoriale, modellando per decenni il dibattito ambientale americano.
Nel 1953, la legislatura dello stato del Vermont ebbe un’intuizione: se le aziende produttrici di birra causano una dispersione nell’ambiente delle bottiglie monouso una legge può prevenire il fenomeno. Approvarono così una legge che vietava la vendita di birra in bottiglie monouso. Non si trattava ancora di una legge che prevedeva un deposito cauzionale: stabiliva che la birra potesse essere venduta solo in bottiglie riutilizzabili e a rendere. Anchor-Hocking, un’azienda produttrice di vetro, intentò immediatamente causa, definendo la legge incostituzionale. La Corte Suprema del Vermont non gli diede ragione e nel maggio del 1954 la legge entrò in vigore. Qualche mese dopo in ottobre nacque Keep America Beautiful, con la manifesta intenzione di “contrastare l’abitudine degli americani di gettare rifiuti per strada e dai finestrini delle auto”. Il New York Times notò che tra i leader del gruppo c’erano “dirigenti di aziende produttrici di birra, lattine di birra, bottiglie, bibite analcoliche, gomme da masticare, caramelle, sigarette e altri prodotti simili“. Furono questi i soggetti che traevano profitto dal consumo usa e getta guidati da William C. Stolk, presidente dell’American Can Company, che si impegnarono a cambiare i termini del dibattito sui rifiuti, riuscendoci, come vedremo.
La legge che vietava la vendita in bottiglie riutilizzabili nel Vermont non ebbe comunque una lunga vita, a seguito delle forti pressioni esercitate dall’industria del settore sulla politica. Infatti nel 1957, senza troppa pubblicità, il Senato del Vermont cedette alle pressioni e non rinnovò il provvedimento.
Nel 1962, anche il Michigan valutò l’idea di vietare le bottiglie monouso senza vuoto a rendere. Keep America Beautiful si oppose apertamente. Per tutti gli anni Sessanta, Keep America Beautiful e l’Ad Council combatterono una crescente richiesta di leggi con una crescente denigrazione dell’individuo. Coniarono lo slogan “Ogni rifiuto fa male” e resero popolare il termine “litterbug”. Nel 1967, riunitisi allo Yale Club i decisori sulle politiche di KAB decisero di adottare un tono più negativo arrivando a definire come ‘sporchi’ coloro che abbandonano i rifiuti e anche “maiali” sino a che l’associazione” South Texas Pork Producers Council”scrisse per lamentarsi.
La storia di Keep America Beautiful KAB
L’organizzazione — come si legge sul suo sito — è nata a seguito di incontri avvenuti nel 1953 tra leader del settore aziendali e pubblico a New York City per unire i settori pubblico e privato al fine di sviluppare e promuovere un’idea di pulizia nazionale e di prevenzione dei rifiuti. Quei leader provenivano da corporazioni di imballaggio e bevande come l’American Can Company, la Owens-Illinois Glass Company e successivamente Coca-Cola e la Dixie Cup Company.
Attraverso varie campagne pubblicitarie tra la fine degli anni ’50 e ’60, Keep America Beautiful ha promosso iniziative di sensibilizzazione sulla crescente crisi dei rifiuti che esortavano i cittadini a mantenere puliti parchi e spazi esterni. In tal modo, i critici hanno notato, l’organizzazione ha omesso di menzionare nella conversazione pubblica quali fossero la natura e le vere fonti dei rifiuti abbandonati, ovvero il crescente numero di contenitori usa e getta prodotti dalle aziende di bevande.
Al contrario gli attivisti ambientali stavano sempre più richiamando l’attenzione sul ruolo dell’industria nella dispersione dei rifiuti da imballaggio e altri contenitori monouso e in particolare durante le numerose manifestazioni tenutesi nella prima Giornata della Terra del 22 aprile 1970.
Il lancio dello spot del “Crying Indian” avvenuto nella seconda edizione del 1971, fu la chiara risposta dell’industria intenzionata a cambiare la narrativa.
“Nel creare l’immagine dell’indiano che piange, KAB praticò una sottile forma di propaganda. Poiché le corporazioni dietro la campagna non pubblicizzarono mai il loro coinvolgimento, il pubblico presumeva che KAB fosse una parte disinteressata. I documenti di KAB, tuttavia, rivelano il livello di duplicità nella campagna”, scrisse Dunaway nel suo libro “Seeing Green The Use and Abuse of American Environmental Images”. “KAB eccelse nell’arte dell’inganno. Promosse un’ideologia senza sembrare ideologica; cercò di contrastare le affermazioni di un movimento politico senza sembrare essa stessa soggetto politico. L’Indiano che piange, con la sua creativa appropriazione di temi del movimento della controcultura , fornì la lacrima che induceva sensi di colpa di cui KAB aveva bisogno per propagandare un concetto senza farlo sembrare propagandistico”.

Lo spot ha fatto intendere che la responsabilità dell’inquinamento non è delle corporazioni ma degli individui e “nascondendo il ruolo dell’industria nell’inquinare l’ambiente“, scriveva Dunaway che ha notato come l’enfasi sull’azione individuale invece che sulle pratiche aziendali persiste ancora oggi, ad esempio anche nella conversazione sul cambiamento climatico.
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