La dispensa

Le api sono “insieme” e non individui. Fuori dalla comunità non possono vivere”. (Mario Rigoni Stern)

Per fare le cose per bene ci vuole amore. Tante volte in questi anni di attività mi è capitato di intercettarlo. Per il proprio lavoro, per le istituzioni, per il Paese. Donne e uomini prestati alla politica e professionisti del buon governo. Cittadini, prima di tutto. Per me è questo che fa la differenza, nel profondo. Che lascia il segno alle cose, un’impronta difficile da cancellare nel tempo.

La natura di un comune e di una comunità è la precarietà. Cambiano gli amministratori, la gente passa e se ne va (chi migra, chi arriva, chi nasce e chi muore). Ci sono buone idee, colpi di fortuna, accadimenti inerziali e improvvise accelerazioni che fanno storia. Ma l’amore nel far bene le cose senza lasciare indietro nessuno è l’atteggiamento giusto di chi prepara la tavola per il prossimo pasto e al contempo riempie la dispensa di provviste per quando farà freddo.

Nella gestione dell’ordinario, così come dei beni comuni occorrono buon senso, lungimiranza, visione. E l’umiltà di aprirsi alla cittadinanza: pretendere anzi il confronto, la contaminazione, avendo ben presente che questi sono tempi bui per la conoscenza e l’approfondimento. Il contesto è da disperazione. Si parla senza ascoltare, si giudica senza pazienza, ci si circonda di muri e la paura governa l’istinto di bande tra loro in conflitto. Siamo come tessere di un puzzle che hanno perso la strada e il senso per un ricongiungimento.

Ecco allora che fare le cose con amore è l’unica cosa che conta. Perché prima di un progetto spettacolare o di un’idea illuminata servono calore ed empatia. Le persone vanno fatte uscire di casa, ed è questa la sfida più difficile. Dar loro un’opzione desiderabile, costringerli a rinunciare alla confort zone di un caldo divano e rimettersi in gioco in una piazza, nel bel mezzo di un’assemblea pubblica, in uno spazio condiviso.

I media ci sputano addosso ogni giorno notizie di cronaca nera. Mostrano il degrado, la rabbia, le inefficienze di una macchina pubblica in evidente affanno. E quando si accostano ad esperienze virtuose di condivisione dei beni comuni tra istituzioni locali e cittadinanza attiva, l’approccio è sempre quello di un nonno bonario che ci fa una carezza. Come a dire “che bravo, bambino. Ora torna a giocare e lascia fare ai grandi!”.

E allora all’amore nel fare le cose, e alla passione, occorre aggiungere lo sforzo di raccontarle bene, le cose. Far sapere tutto ciò che c’è dietro ad un buon progetto, narrare tutti i passaggi difficili ed entusiasmanti che fanno la storia di processo partecipativo. La diffidenza, gli errori, gli esperimenti. Ma anche le facce, le parole d’ordine, le aspettative e lo slancio di rendere tutto questo qualcosa di bello e di concreto. E di utile per la comunità nel suo insieme. Replicabile anche, al netto delle differenze che rendono ogni azione (anche la meglio codificata) per certi versi inimitabile.

In questi anni ne ho visti tanti di progetti falliti. E altrettanti finiti come si deve. Numeri, buone pratiche, esperienza. Tutto dipende dall’unica cosa che hanno in comune, l’unica a far davvero la differenza. Le persone. Sindaci o “semplici” cittadini che siano. E l’amore che impiegano nel far bene le cose.