Rocce che diventano cattedrali
La Legge n. 56 del 2014 (nota come Legge Delrio) attribuisce, tra le altre cose, maggiore importanza alle Unioni dei comuni incoraggiando le fusioni. La norma si è inserita coerentemente in un quadro legislativo che da ormai un ventennio vede lo Stato centrale riorganizzarsi, nell’ottica di un ridimensionamento della rappresentanza locale e della conseguente presenza dello stesso sul territorio.
Alla luce (anche) dei recenti avvenimenti sismici che hanno evidenziato una volta di più l’enorme debolezza in cui si trovano a operare i sindaci dei comuni sparsi per il Paese, è opportuno fare una riflessione che trae forza, a nostro avviso, da un presupposto sbagliato.
Il ragionamento è il seguente: siccome le risorse pubbliche scarseggiano, occorre evitare il più possibile di disperderle in troppi rigagnoli e, di conseguenza, è necessario riordinare la casa istituzionale andando a chiudere gli spazi inefficienti, poco abitati e frequentati, favorendo il più possibile una condivisione di ambienti comuni, in grado di ottimizzare al meglio le risorse (personale, fondi) e i servizi.
Sarebbe troppo facile qui smentire una tesi che ha giustificato gran parte delle azioni da accanimento terapeutico che hanno portato sull’orlo dell’emorragia emotiva, politica ed economica i nostri comuni, dimostrando che gli sprechi del carrozzone pubblico non possono essere imputati all’ultima ruota del carro che alla sua parte di risparmi ha già ampiamente assolto. Vogliamo parlare dell’indennità di un sindaco in un comune di poche migliaia di anime? O del patto di stabilità che ha obbligato le municipalità a fare di più con (molto) meno?
Tutte le Regioni si sono inserite in questo gioco al ribasso drogando un corpo già dopato con il trucco del bastone e della carota: ai comuni che si fondono risorse aggiuntive (ma non erano finite, le risorse?) per un tot di anni, per chi non si adegua la condanna di tagli ulteriori.
Il punto è un altro. Se nella stanza di tuo figlio quindicenne fa più freddo che altrove perché il termo è difettoso e gli infissi sono vecchi, la soluzione non è quella di deportarlo nella cameretta della sorellina più piccola (non ve lo perdonerebbe mai…). Semmai, la sfida sarà eliminare gli sprechi e rendere più confortevole l’ambiente (riparando il calorifero, coibentando gli spazi). Usando meglio le risorse disponibili, evitando di buttare denaro pubblico e mantenere in vita un presidio fondamentale (i comuni, anche quelli piccoli come una formica) che sono al tempo stesso appartenenza e cura, sostegno e comunità.
La crisi economica e sociale, insieme a un modello di sviluppo escludente, stanno facendo il resto. L’Italia delle terre di mezzo si svuota, i giovani scappano e gli anziani si ritrovano soli in mezzo a luoghi inospitali e sempre più isolati. Le case (le scuole, i municipi, i borghi, le chiese, i monumenti…) cadono letteralmente a pezzi (non solo quando è la terra a tremare) e non ci sono sufficienti risorse, si torna sempre al punto di partenza, per correre dietro alle emergenze.
Ma la vera emergenza di questo Paese sono tutte le emergenze lasciate lì a imputridire per anni e anni di incuria e indifferenza, figlie di una politica che non sa guardare e programmare al di là del proprio orizzonte, che troppo spesso coincide con il proprio naso. Perché non provare quindi a mettere in gioco modi di essere che non si intende prendere quasi mai in considerazione: curiosità e buon senso?
Il grande Zygmunt Bauman scrive: “Dobbiamo scegliere obiettivi che siano ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare”. E’ questo che andiamo dicendo da ormai un decennio. Prima di chiudere i comuni come fossero negozi di prossimità incapaci di reggere la concorrenza di moderni centri commerciali, si abbia il coraggio e l’onestà di valutare caso per caso: premiando chi risparmia garantendo qualità, tempestività ed efficacia dei servizi da chi sperpera e arraffa. Rendendo modello per tutti ciò che oggi è sopportato come fastidiosa eccezione che conferma la regola. Il tutto, beninteso, a parità di risorse. Perché certe esperienze ormai consolidate dimostrano che un altro modello è possibile, e che non è affatto detto che collezionare la fusione dei comuni significhi automaticamente risparmiare soldi migliorando la qualità dei servizi.
Un esempio per tutti, va fatto. Castel del Giudice. Piccola realtà di trecento abitanti nell’appennino molisano, in provincia di Isernia. Popolazione anziana, economia decadente, una scuola chiusa per carenza di materia prima, i bimbi. Destino segnato: comune da chiudere. Ma una classe dirigente paziente e lungimirante è riuscita a trasformare, con la complicità positiva di un’intera comunità, le debolezze in risorse, i rami secchi in linfa vitale. Mettendo in piedi un’esperienza amministrativa bellissima e carica di futuro. Un virus capace di resettare un intero sistema, e farlo ripartire daccapo. Se solo si avesse il coraggio di osare. Oggi il borgo disabitato è un albergo diffuso che attrae un turismo lento e sostenibile. I terreni incolti sono diventati l’occasione per la coltivazione di mele autoctone distribuite in mezza Europa. E il complesso scolastico in disuso è diventato un centro per gli anziani del paese. Risultato? I giovani non scappano più, gli anziani sono meno soli, ci si prende cura del territorio creando nuove opportunità di lavoro.
“Un ammasso di roccia cessa di essere tale nel momento in cui un solo uomo la contempla immaginandola, al suo interno, come una cattedrale.” (Antoine de Saint-Exupéry).
Marco Boschini – Coordinatore Associazione Comuni Virtuosi