Sapere fare

SAPERE, FAR SAPERE,

SAPERE FARE, FARE

Dopo mesi di emergenza, di malattia, di morte, di esclusione

come un uragano che scoperchia le case e mostra

sia la fragilità di quel che abbiamo costruito

sia gli interni dei luoghi che abitiamo, nei quali ci rifugiamo…

insomma…

dopo mesi di emergenza, di malattia, di morte, di esclusione

vediamo

chiaramente comunità cha hanno subito un profondo mutamento.

Che lo avevano subito negli anni scorsi, ma che solo ora diventa evidente.

Nell’elenco metterei

per prima la nostra impreparazione in relazione alla morte.

Di fronte ai defunti abbiamo sempre avuto il bisogno di confrontarci coi corpi, con i resti concreti, materiali. Li abbiamo ritratti da sempre nelle piramidi come nei nostri cimiteri più piccoli. Operai che avevano fatto nella vita una sola fotografia durante il militare, contadine che possedevano solo la foto del matrimonio se la ritrovavano attaccata sulla lapide. I martiri delle stragi… li abbiamo ripescati dal mare, dissotterrati nei luoghi degli eccidi nazi fascisti, ricomposti dopo le esplosioni nelle fabbriche. Alle volte un frammento ci ha raccontato qualcosa di importante… ce lo siamo andati a cercare col microscopio, lo abbiamo letto nel dna. E lo facciamo ancora oggi con i nostri progenitori a Pompei o nelle caverne.

Per millenni abbiamo avuto bisogno di dare un corpo alla morte. Per confrontare noi, “corpi” viventi, con ciò che di vivente era stato in quelle carni senza vita.

E invece in questi ultimi mesi abbiamo accettato che quei corpi fossero abbandonati. Spesso quando erano ancora vivi anche se appesi a un filo.

Non è stato il potere, la legge, la scienza a sottrarci i corpi. Il dpcm ha solo fotografato un vuoto che preesisteva.

Semplicemente non ne avevamo più bisogno.

O non ne eravamo più capaci.

Per seconda 

c’è la nostra idea di libertà.

Molti si lamentano perché ci viene limitata la liberà.

Di quale libertà abbiamo bisogno?

Una generazione sta subendo la chiusura del principale luogo di incontro. Forse l’unico nel quale è possibile fare esperienze, in parziale autonomia, con altri di diverso sesso, censo, provenienza, eccetera. Ovvero la scuola.

E nonostante siano praticamente tutti d’accordo sul fatto che gli studenti, per molti motivi, corrano meno rischi di essere contagiati, una parte consistente delle scuole sono state chiuse.

Chiuse prima di luoghi nei quali il contagio è maggiormente favorito.

E accanto alle scuole sono stati chiusi anche teatri, cinema e musei dove il contagio è statisticamente zero.

Ma mentre chi lavora nella produzione culturale e chi ne fruisce… si accorge di cosa sta perdendo,

un ragazzo di 14 anni perde la possibilità di fare esperienze che non conosce ancora e che, dunque, non ha consapevolezza di perdere.

Le autorità, pur ribadendo che le scuole sono luoghi meno pericolosi di altri che restano aperti, ci dicono che la motivazione della loro chiusura è nei problemi con il trasporto pubblico… per esempio.

Motivo in più per essere arrabbiati per questa condizione alla quale stiamo costringendo un’intera generazione.

Un danno, una menomazione che non riusciremo mai a quantificare.

Per terza e ultima

c’è la nostra idea di società.

Nella seconda metà del secolo scorso c’è stato chi ha parlato di personale che diventa politico. Oggi la questione s’è rovesciata. Il politico è diventato personale. A ogni livello.

Si negano le ideologie, dunque le visioni del mondo che ci accomunano, che ci fanno guardare insieme in una direzione

…a favore delle idee personali.

Il credente ha un suo Dio personale che prescinde da ogni Chiesa,

i partiti sono tirati da una parte e dall’altra da singoli soggetti che sovrappongono il proprio nome a quello del partito

ognuno si sente sciolto da ogni legame rispetto all’altro e conduce la propria battaglia domestica.

La mia visione del mondo coincide con lo sguardo che ho affacciandomi alla finestra.

O forse affacciandomi alla punta del naso.

Un lavoratore precario mi dice: “quando vai a portare una pizza al cliente che te l’ha ordinata online e ritardi dieci minuti… quello si arrabbia con te. Se la prende personalmente con te. Anche se pure lui è un lavoratore precario. Possibile che non ci sia un po’ di empatia?”

E mi preoccupa questo termine. Empatia.

Tra lavoratori, cittadini, appartenenti alla stessa classe sociale, allo stesso territorio, al genere umano… ci dovrebbe essere solidarietà. Non empatia.

L’empatia è un fatto personale. Riguarda “me”.

La solidarietà invece riguarda “noi”.

E ecco che il politico rovesciato nel personale si perde. Scompare.

I politico non c’è più. Ci sono solo io con i miei problemi.

Se ho ancora una speranza la posso riporre in un’altra solitudine simile alla mia. Un’altro essere umano in crisi col quale avere empatia.

Io non credo però

che un patrimonio culturale sia scomparso con la pandemia e nemmeno con 30 o 50 anni di disimpegno, di analfabetismo politico.

Penso che ci siano in molti di noi ancora i saperi che ci tireranno fuori da questa palude.

Che fare per metterli a frutto?

Ciò che sappiamo dobbiamo farlo conoscere,

dobbiamo condividerlo e imparare con gli altri a utilizzarlo concretamente.

Pesco nella storia politica alla quale appartengo

e recupero quelli che compagni più anziani di me chiamavano

“i 4 passaggi dell’autorganizzazione:

sapere

far sapere

sapere fare

fare”.

Ascanio Celestini