La polvere della strada
P come periferie, P come paesi
In questi giorni si è infiammato il dibattito per lo scippo governativo dei soldi dedicati alle periferie delle città.
Le periferie rientrano dalla finestra nel dibattito pubblico, gretto e sonnacchioso, della caldana agostana.
Le periferie sono la scusa per il rimpallo politico del “tu hai fatto questo” vs “ma tu avevi fatto quello”, non sono quasi mai il centro del dibattito. Anzi non lo sono mai.
Così come non lo sono mai le altre periferie dimenticate: i paesi.
Come le periferie urbane anche dei paesi se ne parla per polemica politica o per celia. C’è questo turismo dell’orrido che talvolta li scoperchia questi luoghi dell’abbandono, questo deserto delle in-coscienze.
Nei paesi si va per “festivals”, per liberarsi un poco la coscienza; si cerca la vita “antica e mitica”, la musealizzazione enograstroenterica, l’enogastronomia trimalcionica.
Nelle periferie urbane è terreno di battuta per scrittori di noir, per architetti effeminati, per registi dal naso incendiato dalle sniffate di chimica monsantiana.
Per comprendere la vita nei paesi e nelle periferie o ci si nasce oppure ci si innamora. Non esistono vie di mezzo. Ma questa nascita e questo innamoramento spaventa. Perché presuppone la rivoluzione.
Certo la vita nei paesi è essiccata, passata al setaccio dei venti. Quella delle periferie urbane è spazzata dalla tempesta, in odore alcalino, immunizzata all’orrido, nel teatro dell’abbandono.
Le differenze sono evidenti. Ma il terreno è il medesimo, medesima la polvere delle strade.
Scrive Giuseppe Genna su L’Espresso di questa settimana: “o ci si nasce tra sospiri, pianti e altri guai, oppure ci si innamora dello sperpero umano che qui mulina il suo immenso vortice – e si viene a viverlo integralmente. È la città declinata al gerundio e bisogna averne paura, perché da qui germoglia ogni rivoluzione“.
Emiliano Deiana, sindaco di Bortigiadas