Una scelta di libertà
«Io penso a un grande progetto nazionale: ci sono 5800 centri sotto i 5mila abitanti, e 2300 sono in stato di abbandono. Se le 14 aree metropolitane adottassero questi centri, con vantaggi fiscali e incentivi… E già ci sono luoghi meravigliosi dove ti danno la casa in un centro storico a un euro, in Liguria, e lungo la dorsale appenninica».
Parte da qui l’intervista rilasciata a Brunella Giovara sulla “Repubblica” del 20 aprile scorso dall’architetto Stefano Boeri. Ricominciare dai borghi, dunque, sembra la ricetta per ricominciare ad immaginare il nostro spazio negli spazi, per quando arriverà il dopo. La nostra ripartenza come comunità. Alla fine della pandemia.
Da queste parole si è sviluppato un dibattito e un confronto che ha portato diverse realtà associative ed amministratori locali a prendere una posizione.
«Pensare ai borghi come luoghi in cui trasferire la propria residenza certo! Ed occorre farlo con rispetto dei luoghi e delle comunità attualmente residenti, con la voglia di costruire un nuovo progetto di vita migliore e attento a valori divenuti sempre più irrinunciabili: amore per l’ambiente, cura della casa comune, minimizzazione dell’impronta ecologica, sviluppo sostenibile e voglia di comunità». Così scrive sul sito dell’Associazione Borghi Autentici d’Italia la presidente Rosanna Mazzia, Sindaca di Roseto Capo Spulico (CS).
«È un intervento certamente importante che inquadra – dentro la crisi pandemica – anche il diritto all’esistenza di una forma arcaica dell’abitare fin’ora negata dalle classi dirigenti italiane.
Il Paese e le isole: dall’arco alpino alle terre dell’osso appenniniche, dalle madonie alla nostra Marmilla o al nostro Mandrolisai, sono state agitate – spesso – da visionari solitari che dicevano che i paesi, ancora, possono essere abitati, vissuti.
Lo dicevamo in pochi, quando l’orgia accentratrice voleva cancellarci. Lo affermavamo a gruppi sparuti quando non c’era nessuna pandemia in atto ma si vedeva benissimo lo stupro a cui si stava condannando il Pianeta.
Dicevamo: ma perché chiudete le scuole, le poste, gli ospedali? Perché non ci date una connessione decente? Perché non date valore a un bosco, a un albero, a una formica?
Oggi diciamo le stesse cose con una voce un poco diversa. Diciamo che ci siamo in quest’opera di ricostruzione materiale che si dovrà affrontare. Lo diciamo col cuore aperto e l’anima disintossicata dai rancori che in troppi ci hanno dedicato per anni fra le famose “classi decidenti”.
Noi ci siamo. I paesi sono aperti. I nostri territori accoglienti. Ma vivere in un paese è difficile.
Non sei tu a scegliere il paese per una casa a un euro: è il paese a scegliere te per il valore che quelle case diroccate hanno per ciascuno di noi, per il sudore dei nostri vecchi nell’edificarle. Il paese ti sceglie: se lo sai riconoscere. Se lo sai rispettare. Se fai battere il tuo cuore al ritmo del suo. Ma il paese è spietato. Non ammette errori. Soprannomina le persone per i propri sbagli, per le proprie manchevolezze, per i difetti anche di natura.
Vivere un paese non è una passeggiata. Ci sono sempre occhi che ti scrutano, orecchie che ti ascoltano. Ogni parola ha un peso specifico differente: da luogo a luogo, da persona a persona.
Noi, però, non immaginiamo un Paese senza città. Noi vogliamo semplicemente che ci sia armonia fra città e paesi, fra urbano e rurale, fra spiagge e montagne. Noi dei paesi delle aree interne vogliamo mantenere la libertà di vedere come è fatta la città, come vive i suoi ritmi, le sue malinconie, le sue ossessioni.
Vorremmo che vivere in una città o in un paese sia una scelta, un progetto di vita, un cantiere di una vita: non un obbligo, un esilio o una diserzione. Una scelta di libertà.
Che non ci sia nessuna pandemia a determinare la fuga, né nessuna forma orgiastica di accentramento che mira a distruggere la vita nelle comunità più piccole e marginali.
Quelle comunità così minuscole da essere contenute per intero dentro a un “bosco verticale”, quei paesi che si volevano far morire per anoressia demografica, quei luoghi che cercano – ancora oggi – orizzonti liberi, per la cura dello sguardo».
Noi siamo dentro le parole di Emiliano Deiana, sindaco di Bortigiadas (SS), intervenuto sul proprio profilo Facebook. Le sue parole restituiscono il senso di un lavoro che portiamo avanti da una ventina d’anni, intervista più intervista meno. Un lavoro in prima linea fatto di sbagli e ripartenze, di intuizioni repentine e progetti che si fanno modello per altri, pur nell’unicità di ogni singola storia, di ogni singola comunità.
Occorre sobrietà, intorno a questo argomento, nessuna mania di grandezza o gigantismi da onnivori piani nazionali, e tanta pazienza. Tanto ascolto. Tanta attenzione. Consapevolezza, infine.