Comunicazione pro-plastica: poco efficace, autoreferenziale e non esente da greenwashing

Le campagne e le iniziative di comunicazione pensate dal settore della plastica per migliorare presso il pubblico la percezione del materiale spesso falliscono nel loro intento ricadendo nell’autoreferenzialità, nella negazione del problema e a tratti nel greenwashing. Non considerando le emozioni del pubblico né le gravi implicazioni sanitarie e ambientali causate dall’inquinamento da plastica possono venire percepite come iniziative “di parte” poco obiettive e trasparenti e sconfinanti nel greenwashing, nonostante le più nobili intenzioni.
Per mettere a fuoco la situazione è necessario ripercorrere la storia degli ultimi sette anni di quelle iniziative e comunicazione sui media, e anche sui social, lanciate allo scopo di migliorare la reputazione sulla plastica per arrivare a capire come l’industria del settore e i Consorzi per l’EPR di riferimento potrebbero trasformare la narrazione attuale a proprio vantaggio. Se il pubblico destinatario di questo tipo di iniziativa è quello generalista una comunicazione più efficace ed onesta non può che partire, a nostro avviso, dal riconoscimento delle responsabilità industriali ( diverse a seconda dei diversi tipi e fonti di inquinamento da plastiche e microplastiche) che assuma un ruolo attivo nel proporre delle misure e delle politiche efficaci di prevenzione e mitigazione già esistenti.
Storia recente delle campagne di comunicazione “pro-plastica”
Questa analisi non considera di proposito le campagne di informazione sul riciclo, raccolta, e gestione corretta degli imballaggi in plastica, ma solo specifiche campagne come quella di diversi anni fa che Corepla aveva lanciato sui social e sulla carta stampata denominata #ecologiadellinformazione , con l’evidente scopo di rispondere alla crisi reputazionale che il mondo delle materie plastiche si era trovato a dover affrontare a livello globale, a seguito dell’inquinamento dovuto alla dispersione di plastica nell’ambiente.
Un’emergenza quella dell’inquinamento da plastica che, a partire dal 2016-2017, aveva conquistato sempre più spazio sui media generalisti, arrivando alla prime pagine, più di tante altre criticità ambientali. In particolare in alcuni paesi come il Regno Unito, dove un media particolarmente attivo come il Daily mail aveva già avviato nel 2008 la campagna Turn The Tide On Plastic vincendo un riconoscimento nazionale nel 2018. Un’altra campagna di quel periodo è stata la campagna Ocean Rescue / Un mare da salvare di Sky.

Nel post si era argomentato perché la comunicazione della campagna di Corepla avesse mancato l’obiettivo dichiarato ovvero di “ristabilire ‘la verità’ rispetto a pregiudizi che circolavano sulla plastica evidenziandone gli aspetti positivi che i destinatari del messaggio avrebbero dovuto considerare in una valutazione più equilibrata“.
Un limite di fondo da noi attribuito alla comunicazione della campagna era la sua narrazione come linguaggio, tono di voce e contenuti che non prendeva minimamente in considerazione la sensibilità e l’emotività che il tema andava inevitabilmente ad innescare nel pubblico generalista, destinatario della campagna.
Un pubblico che, essendo stato esposto da tempo alle notizie ed evidenze legate all’inquinamento da plastica, difficilmente poteva apprezzarne l’approccio e cambiare così la propria percezione nei confronti del materiale. Ne è risultata una campagna piuttosto autoreferenziale che ha magari riscontrato soprattutto il plauso del mondo imprenditoriale e degli addetti ai lavori che probabilmente non erano il target primario. Va detto che il sentiment dei consumatori è importante anche quando i decisori industriali devono prendere decisioni sul packaging.
A distanza di qualche tempo tra le iniziative un minimo strutturate sono state lanciate nel 2021 “La plastica è cambiata, cambia idea sulla plastica” ancora attiva ad oggi (sostenuta da Alpla azienda del settore che, a parte un paio di post, non rientra in questa analisi ) e RaccoLtala Giusta, un progetto di Unionplast/Federazione Gomma Plastica nel con un sito però non più aggiornato.
Quest’ultima può essere considerato un seguito della campagna di Corepla anche se ne ha alzato i toni su diversi aspetti. Nonostante sia stata presentata sul sito di Corepla ai tempi come un’occasione “per condividere dati, spesso trascurati o sottovalutati, elevare il dibattito sulla sostenibilità, stimolare l’approfondimento e aprire al dialogo con chiunque abbia voglia farlo con uno spirito costruttivo piuttosto che battagliero o difensivo” non si può dire che mantenga completamente le promesse.
In particolare lo spirito battagliero/difensivo risulta evidente nella scelta del testimonial e guida scientifica del consulente industriale del mondo della plastica Chris DeArmitt , un dottorato di ricerca in chimica e autore di The plastic paradox un libro che ha l’ambizione di supportare decisioni informate nei decisori aziendali e politici. Sul sito dell’iniziativa viene così introdotto : Il Paradosso della Plastica
Il dibattito sulla plastica e sulla sostenibilità si è arricchito di una nuova voce, quella di Chris DeArmitt, Ascolta le sue tesi, sempre fondate su studi scientifici”.
Tutto sin qui condivisibile se non fosse che le affermazioni che accompagnano il suo lavoro e in particolare gli interventi su LinkedIn (a margine di post condivisioni che hanno come oggetto l’inquinamento da plastica) non siano quelle caute e ponderate di un accademico, consapevole dei limiti di un qualunque studio che esplori con rigore scientifico un argomento così vasto come l’inquinamento da plastiche ed i suoi effetti sull’ambiente e sulla salute umana (adottando qui il principio di precauzione).
Tale figura accademica, consapevole dei suoi limiti proprio perché uomo di scienza, non si sognerebbe mai di descrivere un suo lavoro come “la voce della scienza” quando si contrappone ad altri studi e posizioni che rappresentano tesi differenti sul tema, bollandole come falsi miti, fake news, pregiudizi e via di questo passo come è consuetudine di DeArmitt. Facendo qualche ricerca risulta che gli studi su cui l’autore fonda le sue affermazioni sono stati selezionati e recensiti allo scopo di ridimensione il fenomeno su vari fronti; mettendo in discussione la quantità di microplastiche che uno studio rileva essere presenti nell’ambiente o nel corpo umano, e soprattutto sul loro potenziale di tossicità. Temi che riprende nel suo ultimo libro “Shattering the Plastics Illusion” “basato su oltre 5000 studi peer-reviewed per fare luce su questioni cruciali“.
Nella realtà delle cose le tesi esposte nei due libri vengono utilizzate nel dibattito pubblico intersettoriale come solide prove scientifiche dai fan dello scrittore/consulente, senza quelle verifiche che d’altronde solamente un accademico esperto sul tema potrebbe fare. Infatti, esperti del settore spesso rispondono invece agli interventi di DeArmitt sulla neutralità delle microplastiche nei diversi organismi (incluso quello umano) facendo notare che ci sono decine e decine di nuovi studi recenti che invece ne ipotizzano effetti nocivi a più livelli. ( 1) L’ultimo studio, pubblicato su PLOS One il 30 luglio scorso e condotto dall’Università di Tolosa in Francia, stima che si possano inalare fino a 71.000 particelle di microplastiche al giorno, un dato significativamente superiore alle stime precedenti. Le particelle più piccole (sotto i 10 micrometri) sono particolarmente preoccupanti perché possono depositarsi in profondità nei polmoni e penetrare nei tessuti, potenzialmente raggiungendo il flusso sanguigno e altre aree del corpo, tra cui il cervello e gli organi riproduttivi.
In questo caso chi utilizza le argomentazione prima citate potrebbe essere non consapevole di dare spazio ad una narrazione che mette in luce solo una parte della “verità”, quella che piace di più omettendo “the big picture”. Una modalità di comunicazione che rientra nelle categorie del Greenwashing.

Evidenziare i casi in cui la plastica è la migliore opzione possibile rispetto ad altri materiali per le sue caratteristiche e il minore impatto è senza dubbio fornire una corretta informazione. Tuttavia, e a maggior ragione se l’affermazione è supportata da un LCA, va precisato quali sono gli indicatori ambientali utilizzati e in quali la plastica risulta l’opzione ambientalmente meno impattante. In genere viene messo in luce l’indicatore del Global Warming Potential – GWP, ovvero l’impronta di carbonio che rappresenta l’indicatore più favorevole in termini di emissioni di CO₂ quando si comparano packaging di diversi materiali che non racconta tutta la storia di un manufatto. Oltretutto è noto che l’LCA può solo tenere conto di quegli aspetti del ciclo di vita che sono quantificabili – e molte esternalità ambientali non lo sono come il costo ambientale/economico causato dai rifiuti marini e dalla dispersione della plastica in genere e il conseguente impatto sanitario.
Altrettanto noto è il dato di fatto che la gestione del fine vita vita dei manufatti in plastica, e in particolare del monouso, continua ad essere critica a livello globale, anche se con minori o maggiori responsabilità e prestazioni da parte dei vari paesi.
Minimizzazione, distrazione, benaltrismo e altre strategie
Tornando alle modalità di comunicazione promosse attraverso le campagne citate, ma anche utilizzate nella comunicazione su LinkedIN, le strategie adottate dall’industria tendono prevalentemente a minimizzare e contestare dati di altri fonti e ad imputare la situazione di inquinamento attuale ad altri settori. Riesce difficile pensare che alle persone preoccupate per la magnitudine del problema possa interessare sapere che “i tempi di degradazione della plastica sono minori di quanto si dice”, che la “quantità di plastiche e microplastiche presenti nei mari è di 1000 volte inferiore“, che “provengono da altre fonti” (tessile o automobilistico) e/o “non sono tossiche” ma “inerti come una protesi“.
Oppure “sentirsi meglio” quando nella pillola video di “Raccoltala Giusta” viene imputato in prima battuta ai 10 fiumi di paesi asiatici e africani la responsabilità della dispersione dei rifiuti marini.
Nessun accenno o proposte di miglioramento sono arrivate invece per un Mare chiuso il nostro Mediterraneo che, così come fiumi e laghi, è affetto da livelli di inquinamento da microplastiche paragonabili a quelli dei vortici oceanici, e questo solamente grazie ai paesi vi si affacciano, come l’Italia, considerata al terzo posto come contributo dato allo sversamento di rifiuti plastici.
L’unico studio citato sulla pagina della campagna promossa da Unionplast/Federazione Gomma Plastica è un campionamento di pochi mesi delle microplastiche sul fiume Po condotto nel 2020 con il coordinamento dell’Autorità Distrettuale del Fiume Po-Ministero e Minambiente. La ricerca viene così introdotta sul sito di ADBPO (l’autorità di bacino) : “Informazioni allarmistiche o vere e proprie fake news periodicamente diffuse vengono da oggi temporaneamente accantonate per lasciare spazio ai risultati del primo progetto ufficiale di sperimentazione volto ad individuare le microplastiche nel Fiume Po.”
Secondo l’ex presidente di Unionplast Bergaglio non esiste neanche alcun sversamento importante di imballaggi in plastica (all’ora 1.48). Secondo Bergaglio “gli imballaggi prodotti e utilizzati in Italia non contribuiscono assolutamente ai numeri mirabolanti di tonnellate che finiscono nei mari citati dalle ONG e non partecipano in alcun modo alla creazione di plastiche e microplastiche che finiscono nei mari” (…) “L’imballaggio non contribuisce alla formazione delle microplastiche perché tra le prime fonti c’è l’industria tessile”.
Anche l’approccio benaltrista viene spesso utilizzato quando viene affermato che ” la plastica rappresenta meno dello 0,5% dei materiali e dei rifiuti” e rappresenta solo “una piccola parte del problema” mentre si continua ad ignorare più del 99% del problema”. Oppure che per proteggere gli oceani, dovremmo occuparci non solo di ciò che vediamo che galleggia ma anche delle sostanze chimiche tossiche e molti altri inquinanti e che, dulcis in fundo, le responsabilità della situazione attuale sono da ricercare “nei cittadini, nell’industria della pesca che disperde gli attrezzi da pesca oppure del tessile e dei pneumatici”.