La vera sfida green? È ripensare la produzione, non sostituire i materiali
Uno studio dell’Imperial College commissionato da Veolia, intitolato Examining Material Evidence the Carbon Fingerprint, ha comparato le valutazioni sul ciclo di vita di una settantina di imballaggi di diversa tipologia e materiale: ne è emerso che in termini di emissioni di gas climalteranti un puro cambio di materiale non produce un impatto ambientale minore se non è associato a un intervento sul ciclo di utilizzo di un manufatto. Un altro studio, condotto dal network di servizi e consulenza alle imprese PwC, ha stimato che se dovessimo spostare l’attuale consumo di imballaggi in plastica su altri materiali da imballaggio le emissioni di CO2 associate potrebbero quasi triplicare.
Sono diversi gli esempi di sostituzione dei materiali nati in risposta al sentimento anti-plastica, rinunciando a porsi le domande giuste: dalla sostituzione delle bottiglie in PET con lattine o cartoni in tetra pak a progetti come quello della Plant bottle o Paper Bottle, che vede interessate varie multinazionali come Carlsgroup, Coca Cola, Danone, L’Oreal e altre industrie della cosmetica. Un filone di ricerca e sviluppo che continua a concentrarsi sul mantenimento del modello che prevede l’uso di tubi o flaconi per prodotti liquidi o semiliquidi, rinunciando a chiedersi se davvero serva avere un articolo usa e getta o se invece si possano trovare altri modi per rispondere a un determinato bisogno, modi che portino a soluzioni più vantaggiose in termini ambientali ed economici.
E se si verifica che non esiste un’alternativa ragionevole all’usa e getta, la valutazione da fare è su quale sia il materiale giusto per quell’uso guardando all’intero ciclo di vita dell’imballaggio: altrimenti si rischia di abbandonare la plastica per passare a opzioni che arrecano danni ambientali simili, se non maggiori, come abbiamo visto dagli studi citati.
Dalle giuste domande arrivano risposte virtuose
Un esempio eclatante di come, ponendosi le domande giuste, si possano compiere scelte economiche e in gradi di evitare sprechi di risorse e impatti pesanti sugli ecosistemi è quello della sostituzione dei cosiddetti six pack rings, i famigerati anelli di plastica usati per tenere insieme sei lattine (in genere di birra) che, una volta in mare, uccidono tartarughe e altri animali. L’odiosità di questi eventi ha spinto le multinazionali del beverage a sostituire l aplastica con bioplastiche o cartoncino, ma il Gruppo Carlsberg si è chiesto evidentemente se ci fossero soluzioni più efficienti, finendo per optare per un semplice quanto efficace punto di colla a tenere insieme le lattine, senza interferire con il loro riciclo.
Ci sono poi casi di sostituzione efficace della plastica in grado di ridurre l’impatto ambientale rispetto alla precedente opzione, quasi tutti nel settore della detergenza e cura della casa e della persona. In questi ambiti, negli ultimi decenni abbiamo assistito a una diffusione sempre maggiore di prodotti liquidi che hanno progressivamente sostituito quello solidi o in polvere. In più, si sono moltiplicate a dismisura le referenze, vale a dire le tipologie di prodotti come shampoo o bagni schiuma. Accade così che una miriade di contenitori monouso contenenti per il 90% acqua giri su e giù per il Pianeta producendo un enorme impatto in termini di consumo di plastica, emissioni di CO2, produzione de di rifiuti.
C’è per fortuna chi, non senza difficoltà, è impegnato a sperimentare soluzioni diverse, che accenniamo qui di seguito ma che descriveremo più nel dettaglio in un prossimo approfondimento su EconomiaCircolare.com. Una prima soluzione è quella che prevede la vendita del prodotto liquido in un contenitore riutilizzabile portato da casa – o fornito dal venditore a fronte di una cauzione – sia in negozi fisici che online. Un esempio al centro dell’attenzione degli addetti ai lavori e in continua espansione è la piattaforma di vendita online con contenitori riutilizzabili Loop, messa a punto da Terracycle, leader globale del riciclo. Questa proposta prevede anche delle postazioni fisiche nei punti vendita della catena di supermercati partner di Loop, a seconda dei Paesi.
Il partner di Loop in Francia è Carrefour, ma pare che si aggiungerà presto una seconda insegna. La prima postazione è stata inaugurata recentemente in un supermercato della catena della grande distribuzione organizzata e altre otto postazioni saranno inaugurate (o si aggiungeranno) in altrettanti punti vendita dell’insegna entro fine novembre.
Soluzioni per il grande pubblico
Una seconda soluzione che inizia a farsi largo è il ritorno per alcuni prodotti alla formula solida, abbandonando quella liquida. Uno dei casi più recenti riguarda il gruppo L’Oreal, multinazionale della cosmetica che ha aderito al programma della Ellen McArthur Foundation per un’economia circolare delle plastiche e a iniziative correlate come il Global Commitment. Garnier, che fa parte della holding francese, ha lanciato una linea di shampoo solidi confezionati in cartoncino riciclabile per alcune referenze della linea “ultra dolce”, con una formulazione di prodotto al 94% a base vegetale.
Secondo il gruppo leader per fatturato nel settore cosmetici e bellezza, una confezione ha una durata equivalente a due confezioni di shampoo liquido da 250ml e permette complessivamente di risparmiare l’80% di packaging e il 70% di energia fossile richiesta dal processo produttivo della versione in formula liquida. Inoltre, la formula adottata nella versione solida permette un risciacquo più facile, riducendo così del 25% l’impatto ambientale complessivo del prodotto rispetto al corrispettivo liquido.
Lo shampoo solido non è una novità, visto che una volta anche per i capelli si usava il sapone e diversi marchi di nicchia già vendono shampoo solido insieme a catene come Lush, con la sua linea Naked. Il segnale che si coglie in questa fase è che sono anche le grandi marche a compiere scelte di ripensamento e non di semplice sostituzione. Nel caso di Nivea o Henkel, ad esempio, la scelta è stata quella di aprire corner nei supermercati dove si possono comprare i loro prodotti best seller alla spina con contenitori riutilizzabili: una soluzione che si rivela vincete innanzitutto per la sua capacità di arrivare al grande pubblico e non soltanto ad alcune nicchie di consumatori già sensibilizzati. Pretendere che le persone vadano a cercare negozi o opzioni di acquisto zero waste e sostenibili lontano da casa propria, e soprattutto lontano dalle proprie abitudini di consumo, si è rivelata una battaglia persa. Il cambiamento di abitudini e stili di vita va sollecitato con tutte le modalità possibili, in modo che ognuno trovi la spinta più o meno gentile per fare la propria parte.
Progressi ancora troppo timidi
Se prendiamo in considerazione i grandi marchi internazionali e gli impegni sottoscritti attraverso il Global Commitment – GB della Ellen MacArthur Foundation, si può rilevare che il cambiamento è troppo lento. Questo secondo rapporto del 2020 uscito sullo stato di avanzamento degli impegni degli aderenti al GC – a distanza di un anno dal precedente del 2019– rileva che i passi avanti compiuti dai firmatari non sono sufficienti a raggiungere gli obiettivi fissati per il 2025: serve dunque una sostanziale accelerazione nel ricorso a imballaggi riutilizzabili, riciclabili o compostabili, con maggiore contenuto di materia prima seconda ed eliminando al contempo gli imballaggi inutili.
Il rapporto registra progressi significativi soprattutto in due aree: nel graduale aumento di contenuto riciclato e nell’eliminazione di quelle tipologie di imballaggi in plastica identificati come problematiche, ovvero sacchetti usa e getta, cannucce, additivi che alterano il processo di riciclo come il carbon black (o nerofumo, è il pigmento derivato dalla combustione di prodotti petroliferi usato per rinforzare la gomma e le plastiche in generale) e imballaggi in polivinilcloruro (PVC) o polistirolo (PS). Oltre a incentrarsi sulla riciclabilità delle plastiche e nella riduzione di alcuni imballaggi monouso, gli impegni dei firmatari hanno riguardato in maniera decisamente ridotta la revisione di materiali e, soprattutto, il poco ricorso a imballaggi riutilizzabili.
Il rapporto sottolinea infatti che la quota di imballaggi riutilizzabili “non è aumentata rispetto all’anno precedente”, rappresentando solo l’1,9% del mercato in peso. Il restante 98,1% del mercato è dunque costituito da prodotti monouso.