La vera sfida green? È ripensare la produzione, non sostituire i materiali

Evitare del tutto il ricorso a imballaggi monouso dovrebbe essere la direzione da intraprendere, per aziende e governi. Invece si continua a preferire la via più facile, ovvero quella di mantenere intatto il modo di impacchettare i prodotti. Per quali motivi? Il nostro approfondimento su un dibattito sempre più centrale

di Silvia Ricci per Economiacircolare.com

Diciamolo chiaramente: per la maggior parte delle imprese sostituire il materiale dei loro imballaggi è meglio che ridurli, perché permette loro di non ripensare radicalmente il prodotto e il suo packaging, mentre invece una diversa modalità di somministrare il prodotto potrebbe evitare del tutto il ricorso a imballaggi monouso. Così, quando le aziende, pressate dall’attenzione dell’opinione pubblica e a volte da nuove norme, si trovano a dover mettere mano al packaging, la via più facile è indubbiamente quella di cambiare materiale mantenendo intatto il modo di impacchettare i prodotti, e quindi il modello di business e i relativi processi produttivi.

Se si asseconda la pancia
Concentrarsi solamente sul cambio di materiale (in genere dalla plastica alle bioplastiche o altri materiali, tra cui quelli a base cartacea) significa poter mantenere i processi produttivi e la rete di commercializzazione esistenti, senza potenziali aggravi economici derivanti da ripensamenti più radicali. Si preferisce dunque limitarsi a sostituire solamente il materiale, cosa che a grandi linee comporta un aggravio di costi stimati attorno al 25-30%. Questa scelta, però, quasi mai è accompagnata da una seria valutazione dei benefici effettivi per l’ambiente in termini di analisi del ciclo di vita (Lca). Quasi mai ci si chiede se, applicato a quella specifica realtà e a quello specifico prodotto, il nuovo packaging inquini di più o di meno rispetto a quello vecchio: ciò che conta è che appaia green agli occhi del consumatore, quindi in linea di massima che non sia di plastica.

Come si può vedere dal recente studio SCELTA, promosso da Conai con la Scuola Sant’Anna di Pisa, in Italia ma anche all’estero. una giustificata attenzione all’inquinamento da plastica ha portato le persone a credere che il problema ambientale dovuto al monouso si risolva sostituendo la plastica e non cambiando il modello di consumo, che va invece nella direzione di produrne sempre di più.

Le aziende assecondano questa richiesta che arriva dalla “pancia” dei consumatori senza porsi il problema della compatibilità di questi materiali con le infrastrutture di raccolta e trattamento dell’organico esistenti sui territori, né di che fine faranno i loro packaging green dal Nord al Sud dove gli impianti di compostaggio mancano. E, ancora, non ci si interroga neppure sulla reale capacità degli utenti di differenziare correttamente un imballaggio in bioplastica compostabile, quasi sempre identico a uno in plastica tradizionale. Il rischio è quello di contaminare sia la filiera delle plastiche tradizionali sia quella dello scarto organico. Esistono già in commercio, infatti, confezioni in bioplastica compostabile usate da marche di pasta o per prodotti a base di latticini.

Costruire una reale alternativa
La convenienza e le comodità di uno stile di consumo usa e getta hanno conquistato le nostre società più benestanti al punto che solamente ora (e soprattutto per via della plastica) si comincia a capire quali siano le conseguenze ambientali di questa opzione, tra rifiuti generati e risorse (che non sono infinite) sprecate ogni giorno.

Bene dunque affrontare gli effetti collaterali di una cattiva gestione della plastica usa e getta, ma è importante non perdere la visione d’insieme sugli impatti che il consumo di risorse ha sull’ambiente e sulla crisi climatica. Dobbiamo insomma evitare l’errore di risolvere il problema dell’inquinamento da plastica finendo per spostare l’impatto su altre risorse.

 

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