Per una nuova nozione di pubblico

Migliorare la sanità territoriale: questo è stato uno dei ritornelli più ascoltati dopo la pandemia da Covid-19. A questo scopo dovrebbero rispondere le Case della Comunità che compaiono nella Missione 6 del PNRR e si configurano come strutture socio-sanitarie polivalenti che forniscono assistenza di tipo primario e attuano attività di prevenzione nonché di promozione della salute. Un ruolo essenziale  ribadito anche dal Decreto n.77/2022 che definisce le caratteristiche del sistema di assistenza territoriale del Servizio Sanitario Nazionale, e dalle successive linee di indirizzo. Ritenendo cruciale garantire l’esigibilità del diritto alla salute, già ampiamente compromesso, da parte di tutti i cittadini e tutte le cittadine, come da dettato costituzionale, il Forum Disuguaglianze e Diversità pubblica il report “Case della Comunità. Alla ricerca di una «nuova» nozione di pubblico”, concentrandosi sulle Case della Comunità nel settore sociosanitario, individuando quelle caratteristiche a cui ambire e proponendo degli esempi di buone pratiche già esistenti e operative in Italia.

Frutto della riflessione congiunta di un gruppo di esperte ed esperti del settore sociosanitario e del welfare, raccolto attorno al ForumDD, il lavoro ha anche l’obiettivo di indagare come le Case della Comunità possano offrire l’opportunità per ripensare la funzione pubblica, rivitalizzando il lavoro sociale, l’attenzione alla multidimensionalità dei bisogni e la partecipazione dei diversi soggetti coinvolti. Punto di partenza è il mondo del privato sociale che, a causa della spinta esasperata all’esternalizzazione di questi ultimi decenni, in alcuni casi si è trasformato in una sorta di agenzia interinale, seguendo una logica prestazionale, finendo per limitarsi a fornire manodopera qualificata a basso costo e perdendo titolarità sul senso e sulla prospettiva dei servizi. 

Molti governi che si sono succeduti nel tempo hanno sistematicamente annullato le tutele e i diritti del lavoro e hanno congiuntamente favorito un’inversione di tendenza delle politiche pubbliche, che hanno smesso di redistribuire ricchezza, finendo per smantellare uno dei capisaldi della Costituzione. Ossia, lo Stato sembra non garantire e tutelare più l’esigibilità dei diritti, piuttosto la funzione pubblica è piegata su imperativi economici e non agisce più sul piano dei diritti e della cura del bene collettivo. Questo cambio di rotta è evidente proprio nel settore della cura, in cui la proprietà pubblica di un servizio o di una prestazione non ne certifica nei fatti la sua funzione pubblica, per esempio garantendone l’universalità di accesso.

Case della Comunità: quattro caratteristiche necessarie
Nel Rapporto, il ForumDD propone quattro caratteristiche che le Case della Comunità dovrebbero avere. La prima è l’integrazione fra dimensione sanitaria e sociale, necessaria a intercettare i bisogni delle persone, in particolare di quelle più svantaggiate, cercando di incidere ex ante sui fattori di rischio. Le Case della Comunità dovrebbero quindi essere degli spazi accessibili e di prossimità dove la distanza tra cittadine e cittadini e la funzione pubblica sia ridotta, assicurando l’offerta di servizi diversi e multidisciplinari. Seconda caratteristica  è l’attenzione alle relazioni: è fondamentale che ogni cittadina e ogni cittadino sia trattato sulla base di un’uguaglianza di considerazione e di rispetto. 
Terza la predisposizione al lavoro multidisciplinare e la valorizzazione del lavoro sociale e delle risorse della comunità stessa. Le risorse della comunità devono essere mobilitate per acquisire informazioni su bisogni inespressi o poco conosciuti ma anche per esprimere modalità alternative per potervi fare fronte. Infine, le Case delle Comunità, pur avendo una radice territoriale, devono essere mosse da un afflato universalistico. L’articolo 32 della Costituzione é netto: “La tutela della salute è diritto fondamentale dell’individuo, nonché interesse della collettività”. La prospettiva quindi non può che essere universale, assicurando a tutti e a tutti l’accesso ai servizi essenziali di prevenzione e di cura. 

Perché non possono essere i privati a gestire le Case della Comunità
Il rischio è che la gestione delle Case di Comunità finanziate con fondi del PNRR, che si concentrano sugli investimenti in conto capitale e non sulla spesa per il personale, vengano affidate al privato convenzionato. L’affidamento a privati comporta rischi e limiti quali: creazione di posizioni di monopolio, asimmetrie informative, mancato coordinamento delle tempistiche, occultamento dei tagli alla spesa pubblica con gare al massimo ribasso con evidenti effetti negativi sia per chi riceve sia per chi offre cura, mancato coinvolgimento di tutta la comunità, incapacità di integrare la dimensione sanitaria con quella sociale. Inoltre le organizzazioni profit presentano ulteriori problemi quali il maggior peso dei detentori del capitale nelle scelte, e la dimensione della mercificazione, in conflitto con la natura universale e il valore intrinseco dei diritti, come quello alla salute. 

Il modello auspicabile
Per il ForumDD, invece, bisogna realizzare Case della Comunità che, dentro una regia pubblica, si caratterizzino per l’adozione di forme di autogoverno democratico e per la partecipazione delle risorse plurali della comunità, inclusi gli enti del terzo settore e del volontariato. In termini diversi, si tratta, di pensare a una nuova forma di responsabilità e governo pubblico che riconosca gli attori privati come co-gestori attivi di una funzione pubblica, “soggetti” e non “oggetti” di politiche. Un governo della Casa della Comunità partecipato da rappresentanti del comune, dell’azienda sanitaria e del distretto sociosanitario in cui la Casa è inserita, dei soggetti che nelle diverse comunità si occupano del sociale (cooperative, imprese sociali, sindacati, altre organizzazioni della cittadinanza attiva, incluse organizzazioni di advocacy e mutuo aiuto), dei lavoratori e delle lavoratici e degli utenti. 

In altre parole una sperimentazione e una messa in pratica di processi di trasformazione del modo di pensare la salute pubblica e, più in generale, il welfare integrato sociosanitario, che permetta di passare da forme assistenziali, contenitive e istituzionalizzanti, estremamente costose e inefficaci, spesso disumane e divoratrici di capitale sociale e delle capacità delle persone, verso modelli sanitari comunitari, generativi, strutturalmente intrecciati con sistemi di economia civile produttiva che amplificano capitale e coesione sociale, libertà e capacità delle persone e, insieme, le risorse economiche. 

Le buone pratiche 
Nel Rapporto vengono raccontati tre casi: il Laboratorio LaVàl della Val Chiusella, in provincia di Torino, la Casa di Comunità del quartiere Navile di Bologna e la Comunità della Salute di Bergamo. Tre esperienze con caratteristiche comuni: la messa al centro della persona nell’accesso alla salute; l’evidenziazione di un approccio integrato, ossia che consideri il benessere della persona sia dal punto di vista sanitario sia psicologico e sociale; la necessità di costruire l’offerta intorno ai bisogni della comunità, tenendo conto anche della specificità territoriale e allontanandosi dalla logica prestazionale che confonde il bisogno con la domanda; la necessità di attivare percorsi di prevenzione anche attraverso la creazione di spazi di aggregazione; l’approccio alla co-progettazione e co-programmazione dei servizi. Esempi che rendono evidente che una nuova visione di pubblico partecipato e democratico è possibile.

LEGGI IL REPORT