Perchè il Conai non basta (in tre punti)
Riprendiamo l’articolo apparso su Riciclanews che ripropone alcuni punti salienti della recente relazione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm) che sono stati oggetto di uno dei capitoli del nostro Dossier Anci Conai del 2013.
“I sistemi di compliance all’Epr adottati a livello nazionale, tra cui anche il Sistema Conai, da un lato, hanno svolto un ruolo fondamentale e positivo nel raggiungimento degli obiettivi ambientali stabiliti dalla legislazione europea, specie per ciò che riguarda il tasso di riciclo. Dall’altro lato, tuttavia, essi non sempre riescono a garantire il raggiungimento degli altri obiettivi, in quanto, come si vedrà in particolar modo per l’Italia, l’onere ambientale derivante dal consumo degli imballaggi è tuttora sostenuto principalmente con risorse pubbliche (la tassa sui rifiuti pagata dai cittadini), mentre i produttori continuano a sopportarne solo una minima parte, peraltro identica per tutti, così che su di essi non grava il costo effettivo della specifica esternalità negativa generata dai loro prodotti. I produttori di imballaggi, in tal modo, si sottraggono alla concorrenza basata sulla produzione di beni eco-compatibili“.
Così l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Agcm), nella recente relazione sul mercato dei rifiuti solidi urbani in Italia, introduce a pagina 169 il capitolo dedicato all’Epr (Extended Producer Responsibility) ed in particolare al sistema dei consorzi di filiera, facenti capo al Conai, per l’avvio a riciclo dei rifiuti da imballaggio provenienti da raccolta differenziata degli rsu. Il principio dell’Epr, in italiano Responsabilità Estesa del Produttore, è quel principio in virtù del quale chiunque professionalmente sviluppi, fabbrichi, trasformi, tratti, venda o importi prodotti è ritenuto responsabile dei rifiuti da questi derivanti, essendo perciò chiamato ad assumere iniziative funzionali alla prevenzione e alla gestione di tali rifiuti. In poche parole, chi produce rifiuti è obbligato a provvedere, se non sul piano fisico almeno su quello finanziario, al loro corretto smaltimento o recupero. Il concetto di Epr è stato introdotto in Italia nel 1997 con il cosiddetto “decreto Ronchi“, che recependo una serie di direttive europee in materia di gestione dei rifiuti e degli imballaggi post consumo sancì, tra l’altro, proprio la nascita del sistema Conai e dei consorzi di filiera ad esso afferenti. Obiettivo: assolvere al principio dell’Epr per conto dei produttori, importatori ed utilizzatori di imballaggi in plastica, carta, vetro, acciaio, alluminio e legno.
Poco più di diciotto anni sono dunque passati dalla nascita del sistema, al quale viene universalmente riconosciuto il merito di aver contribuito alla diffusione in Italia della cultura della raccolta differenziata e del riciclo e di aver allineato il Paese agli standard ed ai target di recupero fissati dalle direttive europee. I dati sembrano suffragare questa affermazione. Nel 1997 appena il 9% dei rifiuti urbani era raccolto in maniera differenziata, con 2,5 milioni di tonnellate di imballaggi avviati a recupero (riciclo o recupero energetico). I dati 2014 (gli ultimi resi disponibili dal Conai) parlano invece di 8 milioni di tonnellate di imballaggi recuperate, il 68% dell’immesso a consumo. Tutto merito del Conai? E il boom della raccolta si è davvero tradotto in un reale beneficio economico per i cittadini? E per l’ambiente? A queste tre domande l’Agcm prova a dare risposta nel suo dossier. Partiamo dalla prima.
Conai ha davvero raggiunto gli obiettivi di legge sul riciclo?
Si e no. “Conai – spiega l’Antitrust – riporta una percentuale di rifiuti da imballaggio complessivi avviati a riciclo in Italia pari al 68% degli imballaggi immessi sul mercato (i dati si riferiscono al 2013, ndr) a fronte di un obiettivo nazionale, imposto dal TUA (il Testo Unico Ambientale, d. lgs. 152 del 2006, ndr), compreso tra un minimo del 55% ed un massimo dell’80%. In effetti però, tali dati sono riferiti a tutti i rifiuti da imballaggio, ovvero quelli confluiti nel circuito di raccolta urbano (principalmente imballaggi primari) e quelli provenienti dal canale commerciale e industriale (in massima parte imballaggi secondari e terziari), che si caratterizzano come rifiuti speciali. Conai, infatti, considera congiuntamente i due segmenti, principalmente in virtù del fatto che tutti i produttori degli imballaggi immessi al consumo ottemperano agli obblighi derivanti dall’EPR aderendo al consorzio e pagando il contributo ambientale Conai (Cac). Tuttavia, nei fatti la maggior parte dell’attività di avvio a riciclo organizzata dal sistema consortile riguarda i rifiuti da imballaggio confluiti nella raccolta differenziata urbana”. Detto in parole povere, i produttori, utilizzatori ed importatori di imballaggi secondari e terziari (ovvero gli “imballaggi degli imballaggi”, quelli cioè che non finiscono nelle mani del consumatore ma che servono esclusivamente al trasporto e allo stoccaggio delle merci su scala industriale) versano al Conai il Cac, la forma di finanziamento attraverso la quale Conai ripartisce tra produttori e utilizzatori il costo per i maggiori oneri della raccolta differenziata, per il riciclaggio e per il recupero dei rifiuti di imballaggi. In realtà però, solo una minima parte dei secondari e terziari viene intercettata dai sistemi di raccolta differenziata. Tutto il resto è avviato a riciclo in base ad accordi stretti direttamente dagli utilizzatori degli imballaggi con i riciclatori (che pagano per “acquistare” gli imballaggi), senza alcun supporto logistico da parte del Conai. Che però, avendo incamerato su quegli imballaggi il Cac, si attribuisce comunque il merito dell’operazione. “Da questo punto di vista – continua l’Antitrust – se si considera la quantità di rifiuti da imballaggi avviata a riciclo dal solo sistema consortile senza il contributo dei sistemi indipendenti, rispetto al totale degli imballaggi immessi al consumo, la performance di avvio a riciclo conseguita nel 2014 si aggira attorno al 34,6% dell’immesso al consumo“. Circa la metà del dato dichiarato dal Conai. Al di sotto del target di legge.”
Quanto ci hanno guadagnato i cittadini?
In termini economici: poco. Anzi. Abbiamo visto che, in base all’Epr, sono i produttori, utilizzatori ed importatori di imballaggi a doversi sobbarcare il costo della loro gestione. Abbiamo anche visto che gli imballaggi secondari e terziari vengono avviati a riciclo indipendentemente dal supporto logistico, e finanziario, del Conai. Ciò significa che l’azione dei consorzi di filiera si concentra quasi esclusivamente sugli imballaggi da raccolta urbana. Quelli cioè intercettati dai sistemi di raccolta differenziata messi a punto dalle amministrazioni locali. In base all’Epr il Conai, grazie ai fondi derivanti dal versamento del Contributo Ambientale, dovrebbe coprire i costi di gestione delle raccolte differenziate facendo sì che gli imballaggi vengano effettivamente avviati a recupero a spese dei soggetti responsabili. In Italia, però, questo principio non viene rispettato fino in fondo. I proventi della raccolta Cac, infatti, non coprono tutti i costi di gestione, ma solo una parte, i cosiddetti “maggiori oneri”. “I corrispettivi specificamente definiti dall’Accordo Anci-Conai (l’accordo quadriennale che regola i rapporti tra i consorzi ed i comuni e le somme che i primi devono versare a vantaggio dei secondi, ndr) coprono al più il 20% del costo dell’attività di raccolta differenziata” spiega l’Antitrust. Questo significa che, sebbene la raccolta differenziata sia aumentata negli anni, e con essa quindi l’impegno di cittadini ed amministratori locali (ma anche i costi complessivi di gestione), in realtà a pagare l’80% del costo delle operazioni di gestione sono proprio i cittadini con la tariffa rifiuti. Mentre ai produttori, che il principio dell’Epr indica come veri responsabili della corretta gestione del rifiuto, tocca coprire solo la restante fetta di costo. Questo nonostante tutti i Cac raccolti (quindi anche quelli per gli imballaggi secondari e terziari non gestiti dal Conai) vengano indirizzati (almeno in teoria) al recupero quasi esclusivo dei soli imballaggi primari da differenziata urbana. Senza dimenticare che i proventi della vendita dei materiali raccolti vengono incamerati esclusivamente dal Conai. Le buone pratiche di raccolta, insomma, non si traducono in un beneficio economico per la collettività nè in un incentivo a fare di più e meglio. Semmai il contrario. Anche dal punto di vista ambientale, infatti, le cose non vanno poi così bene. “Anche tenendo conto dei rifiuti da imballaggio domestici che vengono impiegati nel recupero energetico, la quota-parte che comunque viene destinata allo smaltimento in discarica (ed è, quindi, priva di qualunque valorizzazione economica) in Italia è più elevata che nel resto d’Europa – scrive l’Antitrust – nel 2012 essa rappresentava il 23,7% di tali rifiuti, mentre il dato medio dell’Ue a 15 risultava pari al 19,1% e non pochi Paesi (Germania, Belgio, Austria, Paesi Bassi e Lussemburgo) riuscivano già a rimanere al di sotto del 10%” .
Quanto ci guadagnano i riciclatori?
Non tanto quanto potrebbero. Il Cac, infatti, è commisurato “in proporzione alla quantità totale, al peso ed alla tipologia del materiale di imballaggio immesso sul mercato nazionale” e non riflette il costo economico ed ambientale che l’imballaggio causa per il suo avvio a riciclo una volta divenuto rifiuto. Ciò significa che il produttore di imballaggi eco-compatibili paga tanto quanto il produttore di imballaggi difficili o addirittura impossibili da riciclare. Ovvero, il Contributo Ambientale (e quindi l’azione del Conai) non funge da leva per l’incentivazione di produzioni sostenibili ed orientate al riciclo, rischiando addirittura di sortire l’effetto opposto. “Un sistema di compliance all’Epr che non sostiene interamente gli specifici costi di gestione dei rifiuti da imballaggio generati dall’attività economica dei suoi aderenti – spiega infatti l’Antitrust – causa l’appiattimento della concorrenza nel mercato della produzione e della vendita degli imballaggi. Di tale restrizione del gioco competitivo beneficiano, in particolare, i produttori di imballaggi meno riciclabili, che si sottraggono alla concorrenza dei produttori di imballaggi più eco-compatibili, in quanto i prezzi formatisi sul mercato non riflettono il reale costo di gestione che segue al consumo dei primi in luogo dei secondi. In altre parole, una non adeguata internalizzazione dell’onere di gestione dei rifiuti da imballaggio impedisce che i prezzi degli imballaggi informino i consumatori sulla maggiore o minore compatibilità ambientale di tali prodotti e, dunque, non consente ai consumatori di compiere delle scelte economiche, e ambientali, corrette”. “Sembrerebbe, pertanto, che l’attuale architettura del sistema italiano -aggiunge l’Agcm – sia fondata su un’interpretazione dell’Epr secondo la quale l’onere che i produttori devono assolvere non risiede tanto (o comunque non direttamente) nel far fronte al costo ambientale causato dai loro imballaggi, bensì nel farsi carico del finanziamento di un soggetto (Conai) che svolge una generale attività di promozione e di sostegno della raccolta differenziata e dell’avvio al riciclo dei rifiuti da imballaggio”.
Riciclanews -16 febbraio 2016
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