Sistema Conai: stallo e braccio di ferro, ma qualcosa deve cambiare

Riprendiamo integralmente questo articolo che contiene molti spunti interessanti…

“Sistema Conai: stallo e braccio di ferro, ma qualcosa deve cambiare” una lettera sul dibattito in corso di Luca Nicchi su concorrenza e riforme possibili del sistema dei consorzi che gestiscono il recupero degli imballaggi in Italia

In Italia amiamo trasformare tutto in lotte di contrada, si sa: in ognuno di noi, evidentemente c’è un pezzetto “made in Siena”. Solo così si spiega come un tema assolutamente tecnico e complesso come il futuro del sistema dei consorzi degli imballaggi (in parole povere, CONAI e i sei “consorzi di filiera” di materiale) non riesca a generare un dibattito sereno, ma sia continuamente oggetto di imboscate e contro-imboscate.

Da una parte, il sistema esistente che, anziché favorire una sua naturale evoluzione e, quindi, una autoriforma, dopo quasi un ventennio di onorato e stimato servizio, tende ad arroccarsi in una rigida difesa dell’esistente, dall’altra una ridda di “free riders” che tentano a ripetizione colpi di mano per intaccare il fortino, aprirlo alla concorrenza e ritagliarsi un ruolo.

In mezzo la politica che, almeno sinora, si è dimostrata in proposito poco propositiva per non dire apatica, non dando mai l’impressione di essere sufficientemente motivata per “dare la linea”, come sarebbe suo diritto e dovere. Adesso, per altro, si attende il “Green Act”, che come suggeriscono il nome e il senso che questo assume nel lessico renziano, dovrebbe rappresentare un passaggio epocale per le politiche ambientali del Paese e che, stando alle indiscrezioni ormai non troppo velate,, dovrebbe intervenire anche sulla vexata questio. Certo che i tempi paiono lunghi……e intanto la guerriglia continua. L’ultimo atto è il tentativo, per altro assolutamente di buon senso, di inserire nel d.dl “Concorrenza” attualmente all’ esame del Senato, emendamenti che permettano a chi crea sistemi consortili autonomi, una volta ottenuta l’”omologa” da parte delle autorità competenti, di non pagare contemporaneamente per il funzionamento del proprio sistema e per quello CONAI abbandonato, nell’attesa che venga confermata la congruità operativa/capacità di raggiungere gli obiettivi prefissati dal parte del nuovo schema.

I termini del problema sono in fin dei conti chiari: quando Ronchi nel 1997 (diciott’anni fa!) diede vita al CONAI e al suo sistema, fece opera meritoria e creò un qualcosa che ha fatto moltissimo per trasformare non solo la cultura italiana dei rifiuti, ma che è stato anche capace di dare risposte concrete e di raggiungere obiettivi forse insperati ed inaspettati.

Il benemerito ministro dell’epoca, tuttavia, commise due fatali errori: ragionò come se in Italia prima di lui non si fosse mai recuperato neppure un etto di rifiuti (quindi niente industria del recupero e del riciclo della carta, dei metalli, delle stesse plastiche…) e non tenne conto delle abissali differenze di “architettura di filiera” e di compatibilità tecniche, economiche e di mercato tra un materiale e l’altro.

Certamente un sistema così accentrato ed esclusivo si è rivelato vincente per il decollo della raccolta differenziata, molto meno per quei segmenti, come la gestione degli imballaggi da attività industriali e commerciali, che la legge nazionale, differentemente in pratica da quella di tutti gli altri stati UE, poneva sotto la sua giurisdizione, senza tenere conto dell’esistenza di un “mercato” già attivo e fiorente, con il risultato paradossale e distorcente di permettere al sistema di introitare contributi ma esentandolo di fatto (talvolta addirittura vietandoglielo) dall’operare nel settore.

Non a caso per molto tempo i più forti attacchi all’unicità del sistema consortile sono venuti da realtà imprenditoriali impegnate storicamente nel recupero e nel riciclo di imballaggi di provenienza non domestica, comprensibilmente preoccupate per la congiunzione di fatto (e per loro esiziale) tra dinamiche espansive degli operatori (soprattutto quelli di ascendenza “pubblica”) dei servizi pubblici di igiene urbana attraverso l’”assimilazione” e incentivazione agli stessi da parte di CONAI e consorzi nel nome della crescita della raccolta differenziata.

Sia detto per inciso, un altro paradosso (ma questa volta la responsabilità è tutta del legislatore europeo) è che le imprese di recupero e riciclo non avrebbero in realtà alcun titolo e alcun ruolo nella creazione di sistemi autonomi, dal momento che la responsabilità per il raggiungimento degli obiettivi (di recupero e riciclo) e quindi l’obbligo/facoltà di consorziarsi, grava unicamente sui produttori di imballaggi (ed eventualmente delle relative materie prime): un approccio che potrebbe avere un senso per le c.d. “filiere chiuse” (carta e vetro) dove produttore e riciclatore coincidono, ma che risulta assai meno calzante per le “filiere aperte” (in primis quella oltretutto variegatissima della plastica), dove tra produttore e riciclatore non c’è alcun punto di contatto ma, casomai, un potenziale rischio di concorrenzialità. In questo senso anche i tentativi fatti (e per altro dispersi nel labirinto della giustizia amministrativa) di dare voce nei consorzi anche ai rappresentati del sistema di recupero a valle non sono mai apparsi né felici né risolutivi, ma questa è un’altra storia…

Si tratta di questioni estremamente complesse, che finiscono per andare a costituire un vero e proprio rompicapo irrisolvibile: il principio che spinge il legislatore a prevedere la creazione di consorzi e’ quello di garantire coattivamente ciò che il mercato da solo non riesce a fare, ma certamente un sistema monopolistico come quello attuale finisce per condizionare pesantemente anche quelle aree di attività contigue che invece sul mercato già operano; d’altro canto, chiedendo di aprire i consorzi alle logiche di mercato, è assai probabile che la precedenza sia data a ciò che il mercato comunque premierebbe, trascurando i “rami secchi”, ossia “a perdere”, per la cui “copertura” i consorzi erano stati previsti. E’ per questa ragione che ora qualcuno parla, in un quadro di pluralizzazione, di imporre comunque la presenza di “consorzi di ultima istanza”, che evidentemente dovrebbero continuare ad assicurare proprio questa “copertura” di aree strutturalmente non remunerative.

Oggi però la spinta ad “aprire il sistema” inserendovi elementi di concorrenza, si allarga anche a settori degli imballaggi domestici. E’ una dinamica molto in linea con l’attuale vulgata culturale, che tende giustamente a diffidare a priori dei monopoli, anche se, nel caso di specie, il monopolio è assai particolare, perché potrebbe anche portare sistematicamente a perdite anziché a guadagni.

D’altro canto, il modello esistente è basato sul principio implicito della compensazione interna, ossia del “pagare meno, pagare tutti”, solo che, memore del pollo di Trilussa, qualcuno ritiene che potrebbe pagare meno ancora e si sta stancando di farlo per chi dovrebbe pagare invece molto di più, anche se appartenente alla medesima galassia di materiale. In fin dei conti non gli si può dare torto ed appare inevitabile che alla lunga cerchi di rendersi autonomo. Oltretutto è probabile che una maggiore segmentazione e specializzazione possa migliorare anche i risultati, dal momento che, sempre in ossequio alla necessità di tenere sotto il medesimo tetto situazioni oggettivamente diverse e interessi contrapposti (vedasi plastiche tradizionali e bioplastiche…), si rischia di rinunciare a migliorare le prestazioni di recupero in comparti specifici. In pratica, si tratterebbe di fare esattamente il contrario del processo avvenuto nei RAEE, dove un sistema nato plurale ma specializzato è stato trasformato ope legis in uno sempre plurale, ma generalista, probabilmente senza migliorare la performance ma finendo per innescare una “concorrenza” basata unicamente sull’entità del contributo ambientale che le aziende devono versare.

Proprio l’allargarsi delle istanze “autonomistiche” anche a settori del mondo dell’imballaggio destinati prevalentemente a diventare rifiuti urbani e quindi oggetto della raccolta differenziata, finisce per chiamare in causa anche i Comuni in quanto parte dell’Accordo ANCI-CONAI, inserendo un ulteriore elemento di complessita’. A fronte di questa, tuttavia, occorrerebbero però fantasia e capacità di trovare soluzioni innovative, non appelli allarmistici come quelli fatti a più riprese da alcuni settori dell’ANCI, evidentemente molto preoccupati dal mantenimento dello status quo, che vorrebbero evidentemente trasformare lo stesso accordo ANCI-CONAI in una sorta di polizza a garanzia dell’immutabilita’ del sistema.

E’ chiaro che tutte queste problematiche meriterebbero e necessiterebbero di un intervento organico che ridisegni sapientemente e pazientemente il sistema, senza farsi condurre o strattonare da visioni molto parziali e da interessi smaccatamente di parte. Il problema è che l’attesa di un simile intervento rischia di protrarre alle calende greche la situazione attuale, prestandosi così anche a tattiche artatamente dilatorie. Per altro CONAI ha sempre evitato, come sarebbe stato opportuno e, probabilmente, anche conveniente per lui stesso, di promuovere un pubblico dibattito allargato, libero e disincantato che conducesse per via naturale e condivisa ad una riforma/evoluzione del sistema. L’occasione per avviare una simile riflessione si e’ presentata quando già nel 2008, a conclusione dell’IC 26 sul settore dei rifiuti d’imballaggio, l’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (nota comunemente come “Antitrust”) aveva con puntigliosità, seppure con qualche sbavatura, individuato i temi salienti, suggerendo di fatto la potenziale agenda per un processo di autoriforma.

Così, in attesa del “Green Act”, la disfida continua, per la gioia di contradaioli arrabbiati e di commentatori ormai smaliziati…e intanto il resto d’Europa, compreso i paesi che più o meno vantano performance simili a quelle italiane, pur facendo riferimento alle medesime direttive comunitarie, si muove già in un’ottica completamente diversa, più pratica e meno legata a schematismi formali, che implica dinamiche proprie ormai a sistemi industriali maturi, ben al di la’ di una fase di start up.

Articolo pubblicato su Eco dalle Città il 16 dicembre 2015