Il rinascimento dei paesi
La fatica di pensare a quale sia la “cura” per i paesi ti lascia sempre senza fiato. Si “potrebbe” fare questo, questo e quest’altro. Ci vogliono i servizi, non chiudete (o ridimensionate) gli ospedali di prossimità, le banche, le Poste, le scuole; fateci muovere più liberamente, più velocemente; fateci connettere col mondo, con Milano, Berlino e New York: dalla branda larga – il giovinastro annoiato e spiaggiato sulla branda con gli uccelli che canticchiano – alla banda larga (condizioni necessarie ma non più sufficienti).
Poi: fare più figli. Atteso che quello dello spegnimento del TV Color non appare come soluzione degna di nota ci si rivolga ai tempi della donna, dei servizi per la prima infanzia e così via.
Ma nulla sembra bastare.
Occorre pensare all’impensato. La cura sta nella malattia.
I paesi sono cura e malattia insieme. Noi che li viviamo abbiamo questa “immunoinsufficienza acquisita” che ti fa vedere la vita passare senza saperla afferrare.
Mi verrebbe da dire che noi dei paesi, da soli, non ce la facciamo. Abbiamo bisogno di altri occhi che ci insegnino la bellezza del guardare rinnovato ai nostri luoghi.
E mi viene da dire – al di là di chi, pro tempore, governa – che non ce la fanno nemmeno da su.
Servirebbe una specie di inoculazione di umanesimo e di “occhi spaventati” per attivare una chimica nelle comunità: progettisti di comunità, sognatori, architetti, archeologi, ciclisti, viandanti, viaggiatori, letterati, illetterati.
Con una missione: un nuovo umanesimo nelle comunità spaventate della Sardegna (e non solo, n.d.r.).
Le istituzioni – regionali e locali – disegnino il perimetro; indichino una rotta; si dimentichino di “progettare” cose che non sappiamo progettare; non diano obiettivi se non quello altissimo di un nuovo rinascimento dei paesi: conti più la qualità del cammino che la meta.
Lasciamo fare alla meraviglia della vita: all’arte dell’incontro. Delle persone. Delle idee.
Emiliano Deiana, Bortigiadas