All’industria della plastica conviene cambiare pelle

La sfida maggiore per l’industria consisterà nel riuscire non solamente a preservare la funzionalità di prodotti e imballaggi in un’economia di consumo altamente competitiva,  migliorando la riciclabilità e i tassi di riciclo, ma nel ridurre allo stesso tempo sia la quantità che le tipologie di materiale utilizzati.

Se per quasi mezzo secolo l’industria della plastica è riuscita a nascondere all’attenzione del mondo gli effetti collaterali di una gestione disastrosa di un materiale estremamente utile come la plastica, ma che “vive in eterno”,  parrebbe essere arrivato il momento della resa dei conti.

Negli ultimi anni il fenomeno del marine litter in tutte le sue diverse forme ha guadagnato le prime pagine dei giornali offrendo immagini che hanno colpito la pubblica attenzione.  Numerosi studi usciti negli ultimi anni hanno rivelato che la plastica è ormai presente in quasi tutti gli organismi marini e ad ogni profondità e latitudine degli oceani. Anche la proprietà della plastica dispersa in mare di assorbire e concentrare in se le sostanze chimiche tossiche presenti nelle acque ha alzato la soglia di preoccupazione dell’opinione pubblica.

Rispetto ad una decina di anni fa, quando ho cominciato a seguire questa problematica sui media ambientali, ma anche su testate specializzate come Plastic News, ho notato che il fronte tradizionalmente attivo nel contrasto del marine litter e nelle politiche di salvaguardia di mari ed oceani, si è notevolmente allargato.

Alle istituzioni governative, associazioni ambientaliste e ai sostenitori del riciclo si sono aggiunti infatti altri soggetti impegnati a vario titolo nella difesa del clima o della biodiversità.Tutti questi soggetti condividono la necessità di risolvere il problema dei rifiuti con interventi legislativi. Anche da parte dei media c’è stato un maggiore impegno di informazione e approfondimento sul fenomeno dell’inquinamento da plastica, che in alcuni casi ha dato vita a campagne mediatiche per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Soprattutto in Inghilterra media come il Daily Mail e il Guardian hanno lanciato specifiche campagne mirate al marine litter e alla plastica usa e getta. Anche Sky ha lanciato un anno fa la campagna Ocean Rescue che, oltre ad un piano articolato di riduzione della plastica nelle sue sedi, ha previsto uno stanziamento 25 milioni di sterline in 5 anni per attività di contrasto al marine litter, e di protezione per circa 400.000 km2 di riserve marine in Europa, in partnership con il WWF .

Sempre in Inghilterra la necessità di trovare una collocazione alle tonnellate di scarti di plastica che non possono più essere esportate in Cina (66% della produzione totale) ha contribuito a far nascere iniziative volontarie di eliminazione o riduzione della plastica monouso. Impegni e programmi in tal senso sono stati annunciati, oltre che dalla May (giudicato uno spot più che un programma ), anche dalla Regina Elisabetta , dalla BBC, da Ryan Air, Eurostar e persino dalla chiesa Anglicana. Quest’ultima, per “chiamare i suoi fedeli alla difesa del creato”, ha pubblicato un vademecum giornaliero di suggerimenti per una quaresima “plastic free” distribuito nelle sue 42 diocesi.

Beat plastic pollution “sconfiggi l’inquinamento da plastica” è il tema, non a caso , scelto dal programma Ambiente dell’Onu (Unep) per l’edizione 2018 della sua giornata mondiale dell’ambiente che si celebra il 5 giugno.

MOLTO PIU’ CHE UNA CRISI DI IMMAGINE….

L’industria della plastica si trova a dover fronteggiare le conseguenze di una strategia basata sulla negazione dell’impatto ambientale, economico e sociale dovuto alla dispersione della plastica nell’ambiente. In particolare l’industria non ha mai voluto affrontare il problema del marine litter, nonostante il fenomeno fosse già noto almeno dagli anni settanta, come ha evidenziato lo studio “Plastic Industry Awareness of the Ocean Plastics Problem” del CIEL : Center for International Environmental Law.

Al contrario la strategia scelta è stata quella di minimizzare se non negare il problema, attribuendone l’esclusiva responsabilità alla cattiva gestione dei rifiuti da parte dei governi e/o all’inciviltà delle persone.

Senza voler negare che c’è sicuramente una parte di responsabilità ascrivibile ai soggetti prima citati, l’impiego massiccio di un materiale durevole come la plastica per realizzare manufatti usa e getta senza prendersi carico del loro fine vita, è stato un classico esempio di modello di business lineare (take-make-dispose). Il Rapporto della Ellen McArthur Foundation The New Plastics Economy uscito nel 2016 ha rivelato che il 95% del valore del packaging, stimabile in 60-120 miliardi di dollari, si perde dopo un singolo utilizzo.

Per quanto concerne il rifiuto da imballaggio tutto ha avuto inizio decadi fa quando la bottiglia di plastica ha messo in pensione i sistemi di vuoto a rendere in vetro permettendo all’industria del beverage di alleggerirsi dei relativi costi di gestione. Al contempo oneri e onori della gestione del fine vita dei contenitori di bevande sono passati a carico delle municipalità e dei contribuenti.

 

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