Grazie per la pazienza
Ho passato una bella fetta di ore delle ultime 24 all’interno del Pronto Soccorso del S. Orsola di Bologna.
Nulla di grave per fortuna, ma per scoprirlo è servito un po’ di tempo. Succede. La pazienza non mi manca, avevo 29 ore di un audiolibro da finire e tra una visita e un esame ho aspettato con calma. Ho visto tante facce, ho sentito pure tante parole. E ti trovi comunque immerso in una giostra di emozioni sempre forti e sempre diverse, che vanno dalla paura alla speranza, dalla lacrima alla rassegnazione, dalla gratitudine all’incazzatura. Ho guardato e ascoltato, senza giudizio, con coinvolgimento e con distacco. Poi, tornato a casa, ho sentito il bisogno di mettere in ordine i pensieri che mi ruotavano dentro, forse in segno di rispetto e stima verso i camici bianchi – qualsiasi fosse il loro ruolo – che ho visto all’opera. Queste le cose che ho capito aspettando il mio turno.
– MI SENTIVO AL SICURO! Sembra paradossale, lo so. Ma nel caos del Covid, e con tutta le pressione che questo comporta, anche nell’occhio del ciclone mi sentivo protetto. I controlli all’ingresso, le aree chiaramente segnalate, le sedute distanziate, l’attenzione degli infermieri a quello che tocchi e a quello che toccano, l’inserviente che alle tre di notte è passato – con sorriso sul volto stanco – a darci un po’ di gel come se ci offrisse una caramella, la voce grossa – che ho sentito più volte – contro chi per arroganza o per pigrizia non voleva stare alle regole. E anche l’infermiere a fine turno, con il giubbotto di pelle e il casco già in testa, che mi è venuto a dire nel cuore della notte che mi era scesa un po’ la mascherina e di stare più attento. Il virus c’è, è inevitabile. Ma lo si affronta, punto.
– PER FORTUNA SONO IN EMILIA ROMAGNA! Sì, ammetto di averlo pensato. Non per campanilismo, ma per realismo. L’ho pensato guardando lavorare tutto il personale medico: sono allo stremo – è inutile negarlo – hanno difficoltà oggettive di spazi, di carico di lavoro, di continue urgenze da gestire. E’ come se vivessero in un continuo problem solving: un tetris di difficoltà a cui trovare nuove soluzioni. Anche sbottando a volte – è umano – anche imprecando. Ma quello che ho respirato in ogni decisione che andava preso era la consapevolezza di essere all’interno di un sistema presente, di una struttura funzionante. Di essere Capitani coraggiosi sì, in un mare oggettivamente in tempesta, ma a bordo di una nave solida, che dà garanzie, che regge l’urto. La sanità emiliana (e romagnola) non è un falso mito. Anzi, ti dà un senso al pagare le odiate tasse e ti ricorda con i fatti il perché sia un dovere pagarle (e ancora più senso ti dà sapere che con quelle tasse stai aiutando anche tante delle persone che sono lì in sala d’attesa con te con zero o quasi euro in tasca).
– NON HO VISTO EROI! Ma ho visto persone. Dedite, competenti, scrupolose, stanche ma comunque lucide. Ho visto persone appassionate al proprio lavoro, che lo fanno con cura e con complicità. Ho visto persone che si sentono parte di un sistema, consapevoli che ognuno debba dare il massimo nel ruolo che lo compete – da chi prende un Codice rosso a chi corre per disinfettare una barella appena usata. Persone che non si nascondono dietro ad una mascherina, ma che ti dicono le cose in faccia. E se ti chiedono “un po’ di pazienza perché la situazione è complessa” te lo stanno chiedendo non per cercare scuse o giustificazioni, ma per stringere una sorta di patto di alleanza: io do il massimo per curarti, tu però aiutami a farlo nel modo migliore possibile.
– HO RISO E HO VISTO RIDERE Ho riso. Mi hanno fatto ridere. E ho visto ridere… Credo sia questo il mio grazie più grande alle persone che ho osservato al lavoro in queste quasi 24 ore al Pronto Soccorso: sanno affidarsi, anche, all’ironia. Quasi come se fosse una bombola d’ossigeno, un salvagente a cui aggrapparsi un attimo, un appiglio comune a cui chiedere sostegno. Ho visto sorrisi – mai fuori luogo, mai denigratori – in grado di consolare, di fare squadra, di dirsi cose senza dirsele. Ho sentito parole giuste per sdrammatizzare, battute belle per ridimensionare, frasi leggere per scardinare momenti di tensione e di incomprensione. L’ironia come medicina – non omeopatica – per sollevare e risollevarsi, dare calore e umanità a quelle sale, trovare un linguaggio comune, al di là delle diagnosi e al di là della terapia. L’ironia di chi sa che non è vero che “andrà tutto bene”, ma che fa tutto il possibile affinché “vada almeno un po’ meglio”.
Poi, uscendo, un’infermiera mentre s’arrabattava per trovare un posto letto per un’anziana signora, mi ha detto, con tutta la sincerità di cui era capace: “Grazie per la pazienza”. L’avrei abbracciata. Ma non si poteva. Un altro paziente era già alla porta, un altro giro stava ripartendo…