La dimensione del luogo

Pubblichiamo l’introduzione del libro Dove: La dimensione di luogo che ricompone impresa e società, di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai (Egea 2019)

Questo libro è dedicato ai luoghi: una dimensione della vita sociale, economica, culturale e politica di organizzazioni, persone e comunità che sembrava perduta o molto indebolita e che invece è ancora tra noi, rigenerata in forme nuove. Negli ultimi anni, infatti, sono sorte, sempre più numerose, iniziative che hanno catalizzato e addensato intorno a spazi spesso abbandonati o sottoutilizzati nuove relazioni tra attori diversi con l’obiettivo di individuare destinazioni d’uso che rispondessero meglio alle sfide sociali che caratterizzano la nostra epoca. Un processo di riuso che trasforma spazi svuotati di relazioni in luoghi dove si addensano significati che alimentano nuove forme di vita ed economia comune. Non è una questione che riguarda solo beni materiali. Anche gli spazi del digitale si prestano a operazioni di rigenerazione sociale, spesso in sinergia con la dimensione offline. In sintesi i luoghi sono spazi fisici e virtuali dove relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi.

Questo florilegio di iniziative – dalle social street ai distretti di economia solidale, dalle cooperative di comunità ai contratti di rete tra piccole e medie imprese territoriali – scaturisce non solo da esigenze particolari che riguardano un determinato contesto, o una specifica classe di beni immobili o di asset digitali. Una delle conseguenze della globalizzazione, solo in apparenza paradossale, è quella di aver fatto risorgere l’importanza della dimensione territoriale e comunitaria. Mentre nella stagione precedente era quello nazionale il livello di governo a cui fare riferimento, oggi sono i territori, i quartieri, le periferie i luoghi privilegiati in cui si sperimentano innovazioni sociali, da cui provengono i più significativi impulsi allo sviluppo e al benessere. La globalizzazione dunque non solo non ha fatto scomparire l’importanza del territorio ma lo ha rilanciato, e ciò nel senso che mai come oggi la creazione di valore si gioca a livello di geocomunità. Solo fino a pochi anni fa la competizione riguardava le singole imprese, che potevano uscirne vincitrici o perdenti, ma ciò che sta succedendo in questa fase storica è che il destino delle imprese è legato a quello del loro territorio. La chiave del successo imprenditoriale è quindi correlata alla dimensione di luogo. La capacità delle imprese di costruire e abitare nuovi contesti di relazioni sociali riguarda sempre meno azioni estemporanee di responsabilità sociale e influenza sempre più i loro KPI oltre a funzioni chiave come ricerca e sviluppo, organizzazione dei processi produttivi, accountability, governance. Un esito che, inevitabilmente, ridefinisce la catena del valore in un’ottica più condivisa e coesiva. Una trasformazione epocale che da esperienze pioniere e di nicchia del settore non profit e dell’impresa sociale arriva fino al cuore del capitalismo.

La qualità relazionale e le norme sociali che popolano i territori e si addensano nei luoghi diventano perciò premessa dello sviluppo e non una mera esternalità. Conseguenza di ciò è che non solo le politiche e le imprese possono fallire, anche i territori falliscono e quando questo accade si impoveriscono le economie, le relazioni, la demografia, le opportunità e le possibilità di abitarli. È quindi intorno alla rigenerazione dei luoghi che si gioca la partita decisiva: una sfida che chiama in causa quei beni intangibili come la partecipazione dei cittadini nei processi deliberativi e la coesione sociale che oggi è sotto attacco a causa delle crescenti disuguaglianze e della tendenza al ripiegamento delle comunità stesse. Oggi a dominare infatti sono comunità rancorose, che preferiscono investire il loro capitale di relazioni e fiducia internamente (bonding) e non per ampliare la propria connettività (bridging). E infatti è proprio intorno a un carattere aperto e connesso dei legami sociali che oggi si gioca la partita del «locale»: non solo per imprese e istituzioni ma anche per la società civile. L’apertura verso elementi di biodiversità che riguardano ambiente, società, istituzioni diventa in tal senso non solo un valore da relegare nella dichiarazione di missione, ma una modalità per disegnare e gestire assetti organizzativi e di governo. Scelte gestionali che possono incidere positivamente su fattori sostanziali dello sviluppo come la competitività economica e la creazione di occupazione.

Oltre all’apertura è quindi la dimensione coesiva delle relazioni tra diversi attori a fare la differenza perché agisce come meccanismo generativo di nuove infrastrutture sociali capaci trasformare gli spazi in luoghi e ricreare quella «ecologia delle relazioni» indispensabile per la vita in comune e lo sviluppo economicoD’altronde anche una scienza dura come la fisica ci insegna che sono i legami e le relazioni fra le molecole a dare consistenza alla materia e all’idea stessa di realtà. Non è forse un caso che in quelle città dove la costruzione e la manutenzione dei tessuti comunitari sono in cima alle priorità delle politiche (sociali, ma anche urbanistiche, culturali, economiche ecc.), si possono toccare con mano queste nuove infrastrutture nate dalla ricombinazione di asset fisici o tecnologici con l’azione rigeneratrice delle comunità.

Le infrastrutture sociali che scaturiscono dalla rigenerazione degli spazi in luoghi non sono solo le scuole, gli ospedali, le abitazioni per housing sociale (150 miliardi di euro è il fabbisogno annuo in EU), ma possono diventarlo tutti quegli asset comunitari destinati a un uso comune, rigenerati da legami sociali. È infatti la generazione di comunità il vero indicatore di impatto sociale di queste progettualità, che si nutrono dell’informalità e della conversazione, ma che richiedono un ruolo abilitante e sinceramente sussidiario da parte delle amministrazioni pubbliche e delle forme più strutturate del terzo settore e dell’impresa sociale. Sono politiche che abbisognano di risorse e competenze sui generis e che non possono rinunciare al protagonismo della comunità intesa non solo come beneficiario ma come coproduttore di soluzioni. La comunità nasce infatti solo quando lo stare insieme, il condividere è percepito come la modalità migliore per prendersi cura di sé. È dentro questa visione che le risorse latenti (competenze, valore d’uso dei beni, tempo, risorse economiche) diventano esplicite e fruibili e che gli asset dormienti (beni pubblici e beni comuni) si rigenerano.

La sostenibilità di queste progettualità tese a erogare servizi ma anche a trasformare contesti, passa prima che da trasferimenti di risorse pubbliche o dall’investimento di investitori privati, dalle aspirazioni degli abitanti, dal loro ruolo attivo e imprenditivo. Sono azioni che chiamano in causa nuove governance sperimentali, basate sul partenariato, policy pragmatiche e realmente collaborative spesso legate alle sensibilità e alla motivazione di coloro che nella Pubblica Amministrazione e nella società civile sono chiamati a promuoverle. Si va a generare così un vero e proprio processo di innovazione sociale di luogo (context dependent) che agendo su scala iperlocale è in grado di elaborare e praticare un cambiamento sistemico. Dove le relazioni sono dense, le pratiche sono inscindibili dalla produzione di significati e possono quindi essere condivise non solo come know how tecnico, ma come politica del quotidiano, contribuendo così a fare davvero la differenza rispetto agli assetti fin qui dominanti.

La sfida: surfare l’onda bassa della crescita 

La dimensione di luogo che stiamo delineando è un vasto campo di azione in attesa di diventare una politica volta non solo a «rammendare» i fallimenti delle istituzioni dello Stato e del mercato, oltre che di una parte della società civile organizzata. L’obiettivo piuttosto è di dar vita a una nuova intelaiatura per lo sviluppo sociale ed economico che contribuisca a risolvere le principali sfide-Paese: creare lavoro, ricostruire la coesione, promuovere mobilità sociale. «Far ripartire il Paese»: quante volte abbiamo sentito questa frase? Non solo dalla bocca dei politici, ma anche da quella dei rappresentanti dei corpi intermedi di sindacati e imprese, dell’università e dei think tank fino alla folla indistinta dei social network. Prima però di tentare la risposta puntando sull’ennesima «next big thing» legata a un’innovazione di prodotto o di processo spesso importata e adattata, è meglio forse riformulare i termini della questione. In questo modo: chi manda avanti il Paese? E come? Perché a fronte del cataclisma di questi ultimi anni, avvenuto peraltro dentro una crisi di lungo periodo, siamo ancora qui a vaticinare uno «zero virgola» di crescita. Meglio quindi concentrarsi sui driver di sviluppo e sui soggetti che li alimentano, verificando se da qui può scaturire o meno un nuovo paradigma per l’economia e la società che altrimenti rischia solo di essere evocato. Un approccio «realista» quindi che, accettando il senso del limite rispetto alla lettura di un contesto sempre più complesso, non adotta ricette facili buone per tutte le stagioni ma cerca di mettere in luce fattori di sviluppo sociale ed economico fin qui appiattiti dall’approccio mainstream, svelandone così il potenziale.

Dunque chi ha mosso il Paese? Quali sono i vettori che hanno creato dinamismo in un quadro dove la principale malattia è l’immobilismo? E quale spazio può avere la dimensione di luogo? Si possono identificare, da questo punto di vista, quattro diversi driver e loro «manovratori»:

-il primo corrisponde alla capacità imprenditoriale di infrastrutturare le vocazioni territoriali rigenerando le loro culture sottostanti. Mai come in questi ultimi anni si sono ridefinite le regole del «piccolo è bello» cercando di trasformarlo da una collezione di singole eccellenze a una vera e propria industry aperta e connessa anche in chiave extra-locale. Eataly, l’unico unicorno nazionale, è lì a dimostrarlo – anche con le sue con traddizioni. Ma ci sono altre casistiche meno evidenti eppure così rilevanti nel dimostrare che il locale si può anche scalare, come dimostra il nuovo rapporto Coesione è competizione di Fondazione Symbola sui distretti delle economie coesive. Controverso nelle dinamiche e forse ancora non compiuto negli esiti, comunque il driver del locale che si multiplica c’è;

-il secondo consiste nella dimensione produttiva del welfare: un driver di sviluppo che ha consentito soprattutto al settore non profit di fare l’impresa, evolvendo verso schemi peculiari di organizzazione imprenditoriale. Un processo non semplicemente adattativo, ma di instituition building grazie al modello dell’impresa sociale che ora, dopo decenni di crescita, si candida a uscire dalla nicchia per assumere un ruolo centrale come impresa impact oriented in diversi campi di attività in cui il welfare comunque continua ad «annidarsi» contribuendo a generare – e non semplicemente redistribuire – valore (luoghi di lavoro, produzione culturale, sviluppo urbano, innovazione tecnologica ecc.).

-il terzo driver, più classico, si ritrova nei processi di concentrazione su scala nazionale e globale non solo da parte di player industriali, ma anche di altri attori, in particolare i gestori di infrastrutture (energia, trasporti, logistica) e i leader di settore di alcuni comparti economici tradizionalmente frammentati (agricoltura, commercio, turismo). Un processo di verticalizzazione favorito dall’avvento delle imprese-piattaforma digitali, ma anche da percorsi di ristrutturazione organizzativa che hanno riguardato attori dell’economia sociale come le cooperative di consumo, dei servizi e, ancora una volta, del welfare;

-il quarto vettore di mutamento agisce più in profondità e riguarda la ricomposizione della domanda sociale, sia in termini di aggregazione sociale, culturale e politica, sia nei modelli di consumo. I catalizzatori della socialità contemporanea non corrispondono più a matrici ideologiche predefinite che indirizzano e facilitano i processi decisionali, ma a comportamenti individuali che diventano azione collettiva attraverso la ricerca, molto pragmatica, di un equilibrio tra soddisfacimento di bisogni individuali e orientamento, anche se non sempre consapevole, verso l’impatto sociale. A questo livello il vettore è tutto spostato sul versante del «fare comunità»: da una parte le comunità della «normalità trasformativa» che agiscono meccanismi di apertura e inclusione; dall’altra le comunità del rancore, oggi dominanti, che portano alle estreme conseguente il principio del «non nel mio giardino».

Questi, e probabilmente altri, sono vettori differenziati sia nella direzione che negli esiti dello sviluppo che accompagnano, e per questo è forte la tentazione di esprimere un giudizio su ognuno di essi in termini di punti di forza e di debolezza, al fine di individuare strategie settoriali. Tuttavia è forse più utile sospendere il giudizio e concentrarsi sulla ricerca di luoghi nei quali un nucleo attivo di relazioni sociali consente di sviluppare nuova economia e protagonismo sociale e politico.

L’onda bassa della crescita muove principalmente dal basso e si allarga dal particolare all’universale. È un processo visibile sia nella volontà di crescita manifestata anche dagli attori dello sviluppo e del welfare locale, sia nei tentativi, per quanto contraddittori, dei big player dell’economia di ritrovare un proprio modello di radicamento,

non semplicemente con finalità risarcitorie rispetto alle esternalità negative scaricate sui territori, ma per elaborare un nuovo modello di business. Il punto di caduta di queste diverse tendenze riguarda spesso – e non a caso – iniziative di trasferimento di beni immobili in esubero da trasformare in hub comunitari che rigenerano porzioni di territorio creando un impatto positivo che ne incrementa la coesione ma anche la competitività.

In sintesi nessuno dei driver analizzati è in grado di reggere il peso di un nuovo modello di sviluppo, ma la loro ricombinazione intorno alla dimensione di luogo ha certamente qualche possibilità in più nel generare una trasformazione sociale autentica.

Il sociale che cambia l’economia (e viceversa) 

Tra i diversi effetti prodotti dalla rigenerazione dei luoghi si può certamente annoverare il mutamento e al tempo stesso il rafforzamento della dimensione economica di quello che viene variamente definito «settore sociale». Una dimensione che è spesso rappresentata, se non come un corpo estraneo, certamente come un fattore secondario. Anzi, in alcuni contesti culturali e in segmenti non marginali dell’opinione pubblica l’accostamento tra business e sociale stride, trasformandosi spesso in atto d’accusa. L’economia viene additata come deviazione rispetto alla mission di soggetti volontaristici e associativi e anche di natura imprenditoriale come le cooperative. Sarebbe relativamente semplice correggere questa rappresentazione «in punta di ricerca», cioè attingendo a dati e modelli teorici che ormai da decenni rilevano che l’economia è tutt’altro che estranea al sociale, in quanto quest’ultimo è un comparto costitutivamente economico che promuove un approccio alternativo, seppur con diverse sfumature, rispetto ai modelli dominanti. Da questo approccio derivano principi di valore e regole di governance peculiari – come il primato delle persone sul capitale, i limiti ai margini di profitto, i vincoli alla

distribuzione degli utili, l’inalienabilità del patrimonio, l’adozione di strumenti di finanza sociale ecc. Le stesse analisi potrebbero andare oltre, evidenziando che il sociale nel quadro della sua economia è anche sempre più connotato in senso imprenditoriale, attingendo quindi a risorse che provengono non solo da donazioni di privati e contributi pubblici, ma in quota sempre maggiore anche da scambi di mercato.

Con le dovute puntualizzazioni sembra quindi tutto sistemato, ma in realtà non è così perché al fondo è l’economia del sociale che sta profondamente cambiando e, con essa, il profilo del settore stesso. L’economia non è solo un fattore costitutivo più o meno rilevante rispetto ad altri, ma forse il principale vettore che contribuisce a cambiare i connotati di un comparto che diverse definizioni concettuali e normative tentano di catturare tracciandone il perimetro e la conformazione interna: non profit, terzo settore, economia sociale e solidale ecc. È e sarà quindi l’evoluzione dei modelli di economia a decidere, in buona parte, qual è la definizione (e l’identità) migliore. Ed è per questa ragione che si possono riconoscere due macro-elementi di trasformazione dell’economia del sociale, rispetto ai quali è importante cogliere l’influsso esercitato dalla dimensione di luogo. Questo ambito di azione infatti contribuisce a rigenerare non solo le infrastrutture materiali ma anche i soggetti organizzativi, spesso di natura sociale, che vi investono e che le abitano.

Il primo fattore consiste nel riposizionamento della funzione di brokeraggio e intermediazione delle risorse economiche, sia di quelle di natura donativa, sia anche di quelle di mercato. Le organizzazioni sociali, infatti, si sono storicamente avvalse di soggetti che hanno svolto una funzione terza rispetto alla raccolta e all’impiego delle risorse economiche necessarie al loro funzionamento e sviluppo. Basti pensare alla Pubblica Amministrazione come assegnataria di contributi, ma sempre più spesso come stazione appaltante che compra, in regime di mercato, beni e servizi da soggetti sociali, spesso di natura imprenditoriale, oppure come partner che co-programma e co-progetta politiche e interventi di natura pubblica secondo modelli di «amministrazione condivisa»14. Ma questa stessa funzione di intermediario attraverso un ruolo composito di broker e di terzo pagatore può essere riconosciuta anche all’interno dello stesso settore sociale guardando al ruolo della filantropia che aggrega risorse economiche in fondi che utilizza in chiave erogativa, ma con una tendenza sempre più marcata all’investimento e alla compartecipazione. Questo ruolo naturalmente non viene a mancare, ma è altrettanto vero che si espande la parte di economia sociale disintermediata che consiste in un rapporto diretto tra soggetti sociali e singoli donatori e/o clienti che comprano i loro prodotti e servizi anche attraverso ruoli ibridi di produzione/consumo e di scambio di mercato/donazione. Le ragioni di questa modifica sono diverse e non sempre univoche. Possono essere legate alla necessità di ricercare risorse aggiuntive per fare fronte alla diminuzione di quelle apportate dai soggetti istituzionali, oppure dalla volontà delle stesse organizzazioni sociali di svincolarsi da eccessivi elementi di rigidità nell’allocazione delle risorse pubbliche e filantropiche (per esempio guardando ai bandi di gara e alle modalità di rendicontazione). In alcuni casi sono poi gli stessi intermediari a incentivare la disintermediazione per evitare fenomeni di dipendenza dalle e di colonizzazione delle loro risorse, aiutati da una normativa sempre più stringente in termini di assegnazione dei servizi.

Questa tendenza genera alcune interessanti sfide che dal livello di design di prodotto/servizio «scalano» fino alla dimensione di project management e agli assetti di governance delle organizzazioni sociali. Da una parte, infatti, è necessario disseminare in tutte le attività e iniziative svolte una serie di marcatori rispetto al valore socio-ambientale prodotto, in un quadro in cui il donatore/cliente è orientato nelle sue scelte non solo da richiami legati alla natura formale dell’organizzazione (tipicamente il carattere non lucrativo) – richiami che peraltro la nuova riforma in materia di terzo settore contribuirà a modificare nella sostanza15. Dall’altra è parimenti necessario dotarsi

di competenze, metodi e contesti per favorire non solo lo scambio di beni e di servizi «finiti» ma piuttosto la loro coproduzione, facendo così valere la capacità di personalizzazione dell’offerta. E ancora, la possibilità di partecipare ai processi decisionali può rappresentare per questi soggetti non solo un rito collettivo che ne riafferma i valori di fondo, ma un modo molto pragmatico per vedere all’opera questi ultimi, lavorando quindi sul co-design di processi decisionali in grado di includere diversi portatori d’interesse. Aspetti, soprattutto questi ultimi, che risultano facilitati nella misura in cui queste organizzazioni si dotano di luoghi adeguamente allestiti lungo un continuum analogico e virtuale nel quale si abilitano comunità intraprendenti.

Il secondo fattore di trasformazione consiste nella dilatazione e progressiva strutturazione di mercati in cui prevalgono modelli di business che sanno incorporare valore sociale e ambientale. L’affermazione di business model di circular e sharing economy – anche considerando le loro ambivalenze di significato e applicative – certifica la fine di un approccio strategico di tipo riparativo (fixing) da parte dei soggetti terzi rispetto ai fallimenti di Stato e mercato attraverso la costruzione di nicchie alternative. Ambiti, questi ultimi, che se da una parte hanno consentito di trasformare azioni di rappresentanza e tutela dei diritti (advocacy) in attività di produzione, dall’al- tra sono stati soggetti a fenomeni di marginalizzazione e, in alcuni casi, di espropriazione del valore da parte di quei soggetti economici dominanti che s’intendevano contrastare. Si pensi, per esempio, al commercio equo rispetto all’economia capitalistica o al welfare di comunità rispetto al welfare state pubblico. La prospettiva aperta da economie sociali in senso lato richiede invece una strategia di incorporazione di diverse arene mercantili (nested market) basandosi su processi di ibridazione e di fertilizzazione incrociata.

In questo nuovo quadro il riposizionamento del settore sociale è legato alla disponibilità e alla capacità d’uso di «codici» in grado di costruire un linguaggio comune tra i diversi attori coinvolti, come nel caso degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG’s) e, più in generale, degli approcci e delle metriche di impatto sociale. È attraverso tali strumenti che si potrà misurare la distintività di queste organizzazioni rispetto a due meta-competenze: la prima riguarda la capacità di disegnare non solo modelli di business ma organizzazioni inclusive; la seconda concerne invece l’adozione di un approccio educativo come modalità per generare valore relazionale autentico.

Tratto da Linkiesta.it.