Plastic free è uno slogan che funziona ma non sempre sottintende meno rifiuti
Continua a crescere il numero delle iniziative Plastic Free da parte di comuni e regioni che affermano di anticipare la direttiva Single Use Plastics vietando la commercializzazione di manufatti in plastica a favore di altri in bioplastica compostabile, che in realtà non sono permessi dalla stessa direttiva. Pubblichiamo l’intervista completa alla nostra responsabile campagne Silvia Ricci di cui è uscita una versione ridotta su Terra Nuova.it.
A distanza di dieci anni dal lancio della tua prima campagna nazionale “Porta la sporta” , che per prima ha fatto informazione sull’inquinamento da plastica dei mari collegandolo con gli stili di vita e di consumo usa e getta, che cosa è cambiato da allora?
La risposta non può essere univoca. E’ cambiato tantissimo a livello di percezione della gravità del problema con un’escalation incredibile negli ultimi due anni. Nonostante questa maggiore sensibilità i progressi conseguiti nella riduzione o nell’attenuazione del problema non sono, purtroppo, ancora rilevabili.
La cosiddetta “storia di successo dell’Italia” nella riduzione dei sacchetti usa e getta che continuiamo a leggere sui media è poco più di una vittoria di Pirro. Se il consumo di sacchetti di plastica si è più che dimezzato , nei supermercati -dove si è verificata la maggiore riduzione- abbiamo ancora un 35% circa di consumo di sacchetti monouso biodegradabili (nei supermercati) con quote di molto maggiori nei mercati e negozi del piccolo commercio.
Questi sacchetti, seppur biodegradabili negli impianti di compostaggio (1) sono pur sempre costituiti da un 60/70% di plastica fossile, oltre alla componente di matrice vegetale.
La battaglia contro l’usa e getta è invece tutt’altro che vinta nei negozi del piccolo commercio, così come nei mercati all’aperto, dove le sporte riutilizzabili, quando va bene servono a contenere altri sacchetti e non sono certamente prevalenti rispetto agli shopper monouso. Fortunatamente, con il provvedimento dello gennaio 2018 che ha inserito l’obbligo di battere sullo scontrino il costo per i sacchetti in bioplastica, ci sono alcune catene di abbigliamento che hanno iniziato a fare pagare i sacchetti di plastica di un certo spessore e con manici a fagiolo che sono ancora permessi (ma non quelli di carta ahimè). Ci sono invece altri settori, come quello delle farmacie che hanno introdotto si i sacchettini ultraleggeri compostabili dal gennaio 2018 facendoli pagare per qualche mese, ma poi, visto la mancanza di controlli, hanno smesso, con tanti saluti all’effetto disincentivante che ne poteva scaturire. Ci sono paesi invece come l’Olanda che hanno recepito diversamente l’indicazione europea di ridurre i sacchetti monouso imponendo agli esercizi una cessione onerosa dei sacchetti sia in plastica che bioplastica con un costo consigliato di 25 cent che ha ridotto effettivamente il consumo di shopper monouso un pò in tutti i settori.
Se guardiamo al consumo complessivo di imballaggi degli ultimi anni va detto che è aumentato di almeno 2-3 punti percentuali ogni anno. Non sono previsti ad oggi cambiamenti nel trend perché sono i nostri stili di vita e di consumo che continuano ad andare da tutta altra parte rispetto ad una riduzione dello spreco.
Per fare un paio di esempi di consumi ad alto tenore di imballaggio in crescita c’è tutto il settore del cibo e bevande “on the go”, con piatti pronti acquistati come asporto oppure ordinati online per un consumo domestico.
Aumenta anche l’offerta e il consumo nei supermercati di cibo di qualunque tipo pronto al consumo, spesso in monoporzioni, e aumenta anche nel settore ortofrutta il ricorso al confezionamento, sia in plastica che in cartoncino. Non si fa fatica a credere ai risultati di uno studio di un paio di anni fa di Bocconi (1) che aveva evidenziato uno scenario al 2030 in cui l’aumento degli imballaggi, arrivava ad essere più del doppio delle quantità che sarebbe stato possibile ridurre mettendo in campo tutte le possibili azioni di prevenzione e riduzione.
Figurarsi cosa possiamo aspettarci se non mettiamo in campo alcuna misura di prevenzione e con la prospettiva di avere, con l’aumento delle raccolte differenziate al sud, maggiori quantità di imballaggi senza valore commerciale post consumo tra plastiche e imballaggi in poliaccoppiato che vengono raccolte per poi finire prevalentemente smaltite in qualche modo.
Non dimentichiamo che oltre alla questione ambientale e sanitaria qui entra anche in gioco la sostenibilità economica del sistema di gestione degli imballaggi attuali che pesa sui bilanci dei comuni.
Infatti i costi di gestione dei rifiuti da imballaggio li pagano, per una percentuale intorno all’80% i comuni attraverso le bollette dei rifiuti dei cittadini mentre solamente una percentuale intorno al 20% è a carico dei produttori/utilizzatori di imballaggi, come ha quantificato l’ultima Indagine sui rifiuti dell’Antitrust. Questo significa meno risorse per i comuni da impiegare in altri progetti di interesse pubblico.
Cosa bisognerebbe fare per non perdere questa battaglia contro rifiuti evitabili come quelli da usa e getta ?
Come non mi stanco mai di ripetere, e soprattutto in un momento in cui si identifica in un materiale come la plastica la “causa di tutti i mali”, bisogna agire soprattutto sulle cause, e non solamente sui sintomi come amiamo fare, se non vogliamo perderci in soluzioni palliative che ci allontanano dalle vere soluzioni.
La plastica monouso è stata la chiave di volta per tanti cambiamenti, nel “bene” quando utilizzata per beni durevoli che hanno permesso di ridurre il consumo di risorse naturali sensibili e nel “male” come utilizzo monouso non governato e regolamentato in modo che non finisse sprecata e/o dispersa nell’ambiente.
La plastica è stata la soluzione ideale come applicazione nel packaging per mettere in soffitta i sistemi di vuoto a rendere per le bevande, che nei decenni dagli anni settanta in poi, hanno subito un inesorabile declino in tutto il mondo. Con la sua straordinaria leggerezza, versatilità e ottime prestazione per garantire la conservazione dei prodotti la plastica ha reso possibile lo sviluppo del sistema attuale di consumo alimentare globalizzato che commercializza e movimenta miliardi di containers da una parte all’altra dei due emisferi. Siamo arrivati così a considerare normali situazioni che hanno effetti letali sull’ambiente e contribuiscono al surriscaldamento climatico. Mi riferisco a bere l’acqua delle Alpi in Giappone o a mangiare in Europa le mandorle e prugne della California, o le pere dell’Argentina, anche quando abbiamo produzione nostrane per gli stessi prodotti.
Abbiamo così creato in ogni nazione delle monoculture che sfruttano all’inverosimile i territori e i lavoratori al punto che anche le certificazioni di sostenibilità perdono di credibilità.
Come possono esistere coltivazioni sostenibili in un pianeta che già nei primi 5 / 6 mesi dell’anno ha già esaurito il budget annuale di risorse naturali e continua per i restanti mesi dell’anno ad estrarre, produrre rifiuti ed inquinamento bruciando le risorse delle future generazioni? Il Global Footprint Network insieme al WWF si occupa di misurare il grado di consumo di risorse che avviene nei diversi paesi che determina ogni anno la data in cui si finiscono le risorse naturali a disposizione denominata Overshoot day . In Italia l’Overshoot day è caduto il 15 maggio scorso.
Questo scenario preoccupante ci dovrebbe far comprendere che per agire sull’inquinamento da plastica bisogna agire contemporaneamente su più fronti e che è necessario un quadro legislativo sistemico per evitare provvedimenti disomogenei che determino spostamenti degli impatti ambientali su altri piani o producano effetti collaterali. Non ci si può aspettare che l’industria vada contro ai propri interessi senza obblighi di legge o altre misure che incentivino una produzione e una commercializzazione dei beni più sostenibile.
Allo stesso modo non si può pretendere che cittadini spesso sprovvisti di nozioni ambientali di base impieghino tempo ed energie per “andare contro il sistema” nell’approvvigionarsi, tanto per fare un esempio, di detersivi alla spina o trovare dei modi per evitare le mille forme di consumo monouso.
La direttiva sulle plastiche monouso (Single Use Plastics – SUP) che dovrà essere recepita entro luglio 2021, e il recepimento in corso delle direttive del pacchetto sull’economia circolare relative ai rifiuti, introducono delle novità interessanti che potrebbero cambiare gli scenari attuali di gestione dei rifiuti. Mi riferisco in particolare all’obbligo per gli stati membri di predisporre dei sistemi di riutilizzo e riparazione dei beni, all’aumento dei target di riciclo, al previsto rafforzamento dei sistemi di responsabilità estesa del produttore (EPR ) che dovranno sostenere i reali costi di avvio a riciclo dei propri imballaggi, e agli obiettivi di raccolta delle bottiglie in plastica che dovranno arrivare al 90% rispetto all’immesso al 2029, con un’obiettivo intermedio del 77% al 2025.