Imballaggi : il riciclo per la plastica (e altri materiali) da solo non basta

OBIETTIVO IMBALLAGGI RICICLABILI (E RICICLATI)

Gli impegni  per rendere il packaging facilmente riciclabile o compostabile (ex post) sono al momento quelli più adottati dalle aziende perché richiedono meno sforzi e investimenti economici rispetto ad interventi ex ante, che richiedono invece un ripensamento dei prodotti e/o dei processi produttivi in chiave circolare. Inoltre la riciclabilità del packaging è solamente un prerequisito, il primo passo  di un impegno molto più grande al quale le aziende devono contribuire, che è il riciclo effettivo. Questo significa chiedersi nella fase di progettazione del packaging cosa succederà una volta che il packaging viene dismesso nei mercati di destinazione, profondamente diversi tra loro a livello socioculturale e di sistemi di gestione dei rifiuti come vedremo con qualche esempio.

In un momento in cui solamente il  9% dell’economia è circolare le aziende che hanno fatto investimenti in vari settori della sostenibilità aziendale, giustamente, lamentano la mancanza di un quadro legislativo che le premi rispetto ad altre che sono più competitive solamente perché,  ad esempio, esternalizzano i costi economici e ambientali causati dalle proprie attività. E’ pertanto di importanza fondamentale che siano i governi a guidare un cambio di rotta all’interno di un piano per l’economia circolare. La Francia ha annunciato recentemente la sua  roadmap che contiene 50 azioni da realizzare anche in relazione all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Per rendere facilmente riciclabili i propri imballaggi le aziende si sono impegnate   a seguire le linee guida per il riciclo promosse  dalle associazioni dei riciclatori che, da tempo, allertano l’industria sugli effetti nefasti per il riciclo causati da una progettazione altamente ingegnerizzata degli imballaggi prevalentemente orientata all’estetica (marketing) e alla funzionalità .

Per rendere gli imballaggi facilmente riciclabili le aziende  sceglieranno con maggiore attenzione polimeri, additivi, coloranti, adesivi, etichette  compatibili con il riciclo per realizzare il packaging. Ma anche le dimensioni perché tutti i popolari flaconcini di probiotici (e integratori vari del banco frigo di dimensioni inferiori agli 8 cm) come Jakult e i vari prodotti di Danone,  durante la selezione automatica negli impianti finiscono nello scarto che viene poi inviato ad incenerimento .  Inoltre, per dare uno sbocco di mercato al materiale riciclato (che aumenta con le percentuali di riciclo), le aziende si sono impegnate a usare materia post consumo al posto di materia vergine.

RICICLABILE NON E’ SINONIMO DI RICICLATO

La riciclabilità è un prerequisito importante per il packaging che deve però misurarsi con l’esistenza di sistemi di gestione post consumo e infrastrutture in grado di garantirne un avvio a riciclo, e processi di riciclo industriale economicamente sostenibili. Attualmente non esistono queste condizioni (in Italia e non solo), per diverse tipologie di imballaggi polimerici (e poliaccoppiati),  e pertanto oltre la metà delle plastiche differenziate dai cittadini  vengono incenerite. Tornando all’esempio delle bustine/sachet monodose che Unilever ha deciso di riciclare, sorgono inevitabilmente alcuni interrogativi circa le condizioni effettivamente esistenti,  o implementabili nei paesi interessati dal progetto,  dalle quali dipende una sua attuabilità.  Ammesso che Unilever possa aprire degli impianti di riciclo basati su questa tecnologia nei paesi dove commercializza questi sachet, come pensa la multinazionale di intercettare questi piccoli rifiuti senza un incentivo economico per chi li conferisce, e in mancanza di infrastrutture logistiche capillarmente diffuse sul territorio per gestire i flussi raccolti ? Chi dovrebbe sviluppare, progettare e gestire l’avvio a riciclo di questo flusso di rifiuti e sostenerne i costi ? Come fare in modo che siano disponibili le quantità necessarie per alimentare regolarmente gli impianti di riciclo e raggiungere economie di scala? Ma, anche ammesso che si possano creare questi presupposti, sarebbe interessante comparare l’impatto ambientale ed economico complessivo di questa scelta con opzioni alternative per capire se “il gioco vale la candela”.   Questo caso studio è emblematico della difficile applicabilità  e/o scalabilità,di progetti di riciclo per polimeri da imballaggio come, ad esempio il PS (polistirene) e l’EPS (polistirene espanso) di cui, non solamente non ci sono le quantità per avviare progetti nazionali di riciclo ma, quand’anche ci fossero, i costi di gestione a tonnellata sarebbero economicamente proibitivi, come esperienze in Canada hanno dimostrato. I produttori/utilizzatori di queste tipologie di imballaggi potrebbero sempre decidere di gestire totalmente i propri prodotti in cicli chiusi che non comportano costi ed esternalità negative per ambiente altri soggetti ma ad oggi non sono partite esperienze in tal senso.

Come riconosce anche un responsabile di Nestlè in un’intervista il packaging monoporzionato (single-serve) è una frazione critica del packaging che stanno affrontando in collaborazione con altri soggetti in modo da arrivare a soluzioni che siano scalabili. Le soluzioni  possibili possono includere un cambio di  materiale o contribuire al miglioramento dei sistemi di raccolta e allo sviluppo di infrastrutture per il riciclo nei mercati dove la multinazionale opera. Prendiamo l’esempio di un contenitore di un prodotto Nestlè che dovrebbe senza alcun dubbio essere completamente riprogettato.  In 15 cm di altezza abbiamo un tappo di plastica, un corpo in poliaccoppiato   e un fondo in metallo. Non vi sono istruzioni sul conferimento a fine vita nelle raccolte differenziate probabilmente perché sarebbe complicato chiedere agli utenti di conferire il tappo nella plastica (che finirebbe nello scarto come abbiamo spiegato prima ) e separare poi il corpo centrale  dal fondo in metallo.

Ci sono anche altri marchi internazionali da Nestlè a Coca Cola a P&G  che hanno dichiarato di volere incrementare gli sforzi  per aumentare l’intercettazione degli imballaggi,  in modo che non vadano ad alimentare il marine litter, e in particolare in quei mercati che hanno dei sistemi di gestione dei rifiuti da carenti a inesistenti.

Nel piano “Ambition 2030” di P&G si legge che “presenteremo delle soluzioni per contribuire a contenere il flusso di plastica che entra negli oceani. Ovviamente non possiamo farlo da soli e guarderemo alla gestione dei rifiuti in modo olistico. I nostri sforzi includeranno una partecipazione ad iniziative multi-stakeholder che cercano di promuovere in regioni chiave lo sviluppo di sistemi di gestione dei rifiuti sostenibili, nonché altri sforzi per migliorare il recupero di valore dai rifiuti“.

Nella stessa intervista sul sito di Nestlè alla domanda su come la multinazionale opera per contribuire allo sviluppo dei sistemi di avvio a riciclo nei suoi mercati si legge che:  “il contributo della multinazionale nello sviluppo di schemi di raccolta, selezione e riciclo dipende dalle legislazione o sistemi di gestione dei rifiuti vigenti nei singoli paesi e includono l’adesione a depositi su cauzione o schemi di EPR o responsabilità estesa del produttore” -e che-“ alleanze con stakeholders mirate alla gestione dei rifiuti da imballaggio e di contrasto al marine litter sono operative in 10 mercati “.
Rispetto all’accenno fatto da Nestlè, e altre aziende del beverage, alla possibilità di appoggiare come industria  sistemi di depositi su cauzione o schemi di EPR, va notato che la decisione di abbandonare il vuoto a rendere con cauzione e refill, per passare alla bottiglia di plastica monouso (senza cauzione), ben prima che esistessero dei sistemi diffusi di raccolta differenziata e infrastrutture di riciclo, è stata una decisione autonomamente presa dell’industria, che ha potuto così esternalizzare i costi del fine vita su governi locali e cittadini.

Se è vero che la maggior parte della plastica che arriva nei mari proviene da paesi asiatici che non hanno sistemi di gestione dei rifiuti efficaci, chi, se non l’industria, ha introdotto gli imballaggi di plastica (o in poliaccoppiato) in questi paesi, ben sapendo quali potessero essere le conseguenze? Chi se non l’industria ha realizzato profitti dalle vendite in questi paesi?. Ora è arrivato per le aziende  il momento di restituire qualcosa e di avviare a proprie spese nei paesi economicamente più svantaggiati degli schemi di EPR per l’intercettazione dei propri beni ed imballaggi.

Per quanto riguarda i contenitori per bevande, che costituiscono il 40% circa del littering, le esperienze di deposito su cauzione attive in circa 40 tra paesi e regioni hanno dimostrato di poter arrivare ad intercettare oltre il 90% dell’immesso al consumo.

Eppure, inspiegabilmente visto l’impegno preso sulla percentuale di raccolta ( dal 90 al 100%) nessuna multinazionale del beverage  ( e neanche la European Federation of Bottled Waters -FBW), ha confermato che appoggerà nei propri mercati un qualche sistema di cauzionamento.  Al momento, tranne qualche spiraglio annunciato da Coca Cola – e solamente in alcuni paesi come il Regno Unito– l’industria del beverage osteggia ancora l’adozione di sistemi di cauzionamento, più che promuoverli come dovrebbe.

Vedi il caso dell’Olanda dove l’industria ha convinto il Governo a rinviare di due anni l’estensione del cauzionamento alle bottiglie di formato inferiore a 75 cl e alle lattine, con la promessa che proveranno a ridurre il littering del 70%-90% e ad intercettare il 90% dei contenitori prima citati. Questa decisione è stata duramente criticata da un ampio fronte di soggetti che include politici, media, enti locali, ong, perché non esiste un solo caso al mondo che provi che questi obiettivi sono stati raggiunti senza un sistema di deposito.

 

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