La governance dell’acqua pubblica

Sinossi

La cosiddetta “riforma” del settore idrico contenuta nel Recovery Plan, di fatto, si sostanzia in una vera e propria strategia di rilancio dei processi di privatizzazione che si incentra sull’allargamento del territorio di competenza di alcune grandi aziende multiservizio quotate in Borsa che gestiscono i fondamentali servizi pubblici a rete (acqua, rifiuti, luce e gas) assumendo un ruolo monopolistico in dimensioni territoriali significativamente ampie.

Nello specifico, il Sud Italia viene individuato come la “nuova frontiera” per l’espansione di questa tipologia di aziende che di norma vengono identificate come gestori “efficienti” ma che in realtà risultano tali solo nel garantire la massimizzazione dei profitti mediante processi finanziari.

Evidenziamo come nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza la cifra “reale” di investimenti aggiuntivi dedicati alla risorsa idrica e agli interventi per il riassetto idrogeologico pari a circa 4 mld. di € è del tutto insufficiente.

Ribadiamo la nostra critica all’attuale sistema di gestione privatistico del servizio idrico e riportiamo in questo documento analisi e dati che ne dimostrano il fallimento anche rispetto all’attività regolatoria svolta da ARERA.

A nostro avviso si tratta di mettere in campo un intervento relativo alla “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, che, nell’arco dei prossimi 5 anni costruisca investimenti pubblici, tramite il Recovery Plan, nella seguente misura:

  • 2 mld di € per la ripubblicizzazione del servizio idrico, da utilizzare nel primo anno di intervento;
  • 7,5 mld. di € (cui aggiungere risorse provenienti dai soggetti gestori per circa ulteriori 2,5 mld) per la ristrutturazione delle reti idriche;
  • 26 mld. di € (di cui 50% provenienti dal Recovery Plan e il restante 50% da ulteriori fonti di entrata) per il riassetto idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio.

A titolo esemplificativo proponiamo le seguenti altri fonti:

  • applicazione più onerosa del principio “chi inquina paga”;
  • aggiungere una quota ad hocdel canone di concessione per il prelievo delle acque minerali e di sorgente destinate all’imbottigliamento;
  • patrimoniale;
  • eliminazione sussidi ambientalmente dannosi (SAD).

1. La nuova Italia, le vecchie privatizzazioni!

Con questo slogan avevamo deciso di denunciare le politiche messe in campo dai governi precedenti per rilanciare la mercificazione dell’acqua e dei beni comuni.

Purtroppo si addice pienamente anche a quanto previsto dal Recovery Plan presentato dal governo attuale.

La cosiddetta riforma del settore idrico, inserita nella 4° linea d’azione “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, volta al rafforzamento della governance del servizio, in realtà punta alla “conquista” del Sud Italia da parte delle società multiutility del centro nord e quindi alla definitiva privatizzazione. Le stesse, costituite con una compagine societaria pubblico-privato, si muovono in una logica del tutto privatistica, gestiscono il SII con regole, a partire dal Metodo Tariffario Idrico, che garantiscono ai privati contributi pubblici e certezza del profitto, mentre ai sindaci assicurano la completa deresponsabilizzazione della gestione.

La strategia di rilancio dei processi di privatizzazione appare sufficientemente chiara e, sostanzialmente, si incentra sull’allargamento del territorio di competenza di alcune grandi aziende multiservizio quotate in Borsa, che gestiscono i fondamentali servizi pubblici a rete (acqua, rifiuti, luce e gas) e hanno un ruolo monopolistico in dimensioni territoriali significativamente ampie.

D’altra parte negli ultimi anni si è lavorato alacremente per preparare il terreno a quella che si può definire una vera e propria colonizzazione. Nello specifico la trasformazione dell’Ente per lo Sviluppo dell’Irrigazione e la Trasformazione Fondiaria in Puglia, Lucania ed Irpinia, l’EIPLI, ossia l’ente che gestisce le grandi opere idrauliche come invasi, opere di captazione di sorgenti e centinaia di chilometri di reti di adduzione tra Puglia, Campania e Basilicata, in società per azioni partecipata, tra gli altri, dalle regioni del Meridione, ha aperto una prima breccia e da quel momento sono state continue le dichiarazioni di Utilitalia e altri soggetti che hanno indicato proprio il Sud come nuova frontiera.

Ora, per chi come il governo, gran parte del Parlamento, i poteri economici forti, la stessa ARERA,vede nel mercato l’unico regolatore sociale, si presenta l’occasione per estendere a tutta Italia il modello di gestione delle multiutility quotate in borsa, sfruttando la pandemia e l’emergenza sociale e sanitaria, anche se non esiste alcun obbligo legislativo per andare in quella direzione.

Quali strumenti ci si appresta a utilizzare per conseguire questo obiettivo?

Di fatto una sorta di ricatto, ossia si subordina l’attribuzione delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza all’affidamento del servizio idrico integrato a gestori “efficienti” che di norma vengono identificati in quelle aziende che garantiscono la massimizzazione dei profitti mediante processi finanziari. Anche qui, peraltro, tale scelta non discende da nessuna disposizione di legge, così come l’efficienza può essere messa in pratica anche da aziende speciali che, applicano la tariffa MTI senza la remunerazione del capitale investito e senza il Fondo Nuovi Investimenti.

L’effetto di questa cosiddetta “riforma” della governance dell’acqua si risolverà quindi nell’ennesima esplicita violazione della volontà popolare espressa con i referendum del 2011.

Si rischia di riprodurre un’analoga violazione dell’esito referendario anche rispetto al ruolo che s’intenderebbe dare ad ARERA della quale abbiamo sempre denunciato il fatto di aver reinserito in tariffa i profitti garantiti per i gestori sotto le mentite spoglie del “costo della risorsa finanziaria”,  scelte tariffarie esose e antipopolari, la sua complicità nel lasciar usare i tanti soldi che ci sono non per gli investimenti in un servizio così essenziale – o per la riduzione della tariffa – ma per remunerare invece gli azionisti pubblici e privati, per la connivenza con l’abuso dei conguagli tariffari arretrati (ha dovuto intervenire il Parlamento per limitarli agli ultimi due anni).

Per queste ragioni chiediamo che le vengano sottratte le competenze sul servizio idrico e attribuite al Ministero dell’Ambiente e per le medesime ragioni risulta improponibile che assuma un ruolo centrale sull’utilizzo e controllo delle risorse derivanti dal Recovery Plan.

Inoltre, dobbiamo evidenziare come nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza la cifra “reale” di investimenti aggiuntivi dedicati alla risorsa idrica e agli interventi per il riassetto idrogeologico pari a circa 4 mld. di € è del tutto insufficiente anche perchè da suddividere in diverse di linee di finanziamento (invasi, agrosistema irriguo, fognatura e depurazione) tra cui anche la riduzione delle perdite che dovrebbe vedere stanziati miseri 900 mln di €.

Pertanto, è indispensabile che si trovino altre risorse da aggiungere,oltre a differenti modalità di intervento,alla componente “Tutela del territorio e della risorsa idrica” pena l’assoluta inefficacia dell’iniziativa.

In ultimo, segnaliamo alcune proposte d’iniziativa da adottare nell’immediato per attenuare gli effetti dell’emergenza sanitaria e della conseguente crisi economico-sociale:

  • la tariffa di emergenza, ossia l’applicazione della tariffa agevolata alle utenze domestiche fino al termine della crisi, evitando quindi che le famiglie si trovino a dover pagare adesso bollette più elevate a causa della forzata permanenza a casa, o domani salati conguagli;
  • il blocco dei distacchi del servizio e l’obbligo ai gestori di riallacciare tutte le utenze domestiche disalimentate e ancora oggi senza accesso alla fornitura d’acqua;
  • l’esenzione del pagamento per gli utenti che abbiano perso reddito da lavoro con un ampliamento dei criteri già previsti nella disciplina del Bonus idrico.

2.Occorre andare in tutt’altra direzione.

In primo luogo, dando attuazione alla volontà referendaria disattesa in tutti questi anni e riconoscendo il ruolo fondamentale di servizio pubblico, va finalmente prodotta la ripubblicizzazione del servizio idrico. A tal fine, va approvata quanto prima la legge presentata dal movimento per l’acqua la cui discussione è colpevolmente in stallo da oltre due anni in Commissione Ambiente della Camera. Una legge che si pone l’obiettivo di promuovere una gestione pubblica, partecipativa e ambientalmente ecosostenibile, con tariffe eque per tutti i cittadini, una legge che garantisce gli investimenti necessari fuori da qualsiasi logica di profitto e i diritti dei lavoratori. Gli oneri della ripubblicizzazione, da noi stimati in circa 2 miliardi di € una-tantum, vanno posti all’interno del Recovery Plan, visto che essa va considerata a tutti gli effetti intervento di carattere strutturale per il rilancio e il miglioramentodel servizio idrico.

Rispetto all’articolazione tariffaria e al finanziamento del servizio l’impianto di fondo contenuto nella legge prevede che gli investimenti siano, in via prioritaria, assicurati con un nuovo intervento di finanza pubblica (ad es. intervento della Cassa Depositi e Prestiti), mentre la tariffa copre i costi di gestione, gli ammortamenti per la parte degli investimenti finanziati con la finanza pubblica più il costo degli interessi del capitale preso a prestito, prevedendo comunque una tariffa articolata sulla base delle fasce di consumo, e la fiscalità generalee i contributi nazionali e dell’Unione europea sonochiamati ad intervenire per coprire il costo del quantitativo minimo vitale (50 lt/abitante/giorno) e un’altra quota parte di investimenti, in particolare quelli dedicati alle nuove opere. 

3.Diventa poi urgente e fondamentale intervenire rispetto alla ristrutturazione e ammodernamento delle reti idriche. E’ sufficientemente noto lo stato disastroso in cui esse versano nel nostro Paese e le conseguenti rilevanti perdite di acqua che ne derivano, che peraltro hanno subito forti incrementi negli anni scorsi, anche nelle reti gestite dalle multiutility, nonostante l’affidamento esterno sia stato sempre giustificato dalle assemblee dei Sindaci, sulla base di pretese migliori efficienze delle gestioni private in rapporto a quelle pubbliche. L’AEEGSI (attualmente ARERA), con una propria memoria presentata alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati nel 2017, segnalava che il 36% delle condotte risulta avere un’età compresa tra i 31 e 50 anni e il 22% superiore ai 50 anni. Nello stesso tempo, ultimamente, nel dicembre 2020, l’ISTAT ha evidenziato come le perdite della rete idrica nel 2018 assommavano al 42%, un livello assoluto molto alto, ma soprattutto in crescita progressiva, essendo passato dal 32,6% nel 1999 al 37,4% nel 2012 e, appunto, nel 2018 al 42%. Siamo in presenza di una situazione eclatante, che la dice lunga sullo stato del nostro servizio idrico, e anche del fallimento delle scelte tutte orientate alla privatizzazione da almeno 20 anni in qua: basta considerare che, per fare un confronto con altri Stati europei, in Spagna le perdite arrivano al 22%, in Gran Bretagna al 19%, in Danimarca al 10% e in Germania al 7%. 

Questi pochi dati ci indicano quanto sia dunque prioritario e urgente intervenire per affrontare questa situazione e come un grande Piano nazionale per la ristrutturazione delle reti idriche andrebbe assunto come un tema fondamentale per il futuro della risorsa acqua e della stessa idea di sviluppo sociale del Paese.

Altra questione assai spinosa riguarda la depurazione delle acque reflue. Infatti, ad oggi risulta che l’11% della popolazione italiana non è ancora raggiuntoda questo servizio e che la Commissione Europea ha avviato diverse procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia per violazione della Direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane per le quali finora sono stati saldati circa 80 milioni di €(tra 2018 e 2019).

È in questa direzione che vanno indirizzati forti investimenti aggiuntivi.Qui si pone la questione che occorre, da una parte, incrementare significativamente in termini quantitativi gli investimenti nel servizio idrico, utilizzando direttamente gli utili dei soggetti gestori, e, dall’altra, finalizzarli esplicitamente all’obiettivo della ristrutturazione delle reti idriche. Anche prendendo a riferimento i dati più ottimistici, quelli presenti nella Relazione annuale 2020 di ARERA, da essi si evince che nel quadriennio 2016-2019 gli investimenti nel servizio idrico ammontano mediamente a 3,4 miliardi di € su base annua, pari a circa 56 €/anno/abitante. Peraltro, va tenuto presente che in questi dati sono compresi gli investimenti effettuati o previsti tramite il finanziamento pubblico, che non sono certamente residuali e che non vanno recuperati in tariffa. Per prendere solo il 2019, la relazione ARERA stima complessivamente 3,387 mld di € di investimenti, di cui 898 milioni da fondi pubblici, ben il 26,5% sul totale, alla faccia delle narrazioni interessate sul “full recovery cost”!

Ora, praticamente tutti gli osservatori e i centri di ricerca sono concordi nel sostenere che il livello “normale” di investimenti per il servizio idrico dovrebbe attestarsi almeno a 80 €/ab/anno, una cifra vicina ai 5 mld annui, evidenziando una distanza decisamente alta rispetto al dato odierno. E questo non è tutto, se si considera che, secondo un’elaborazione del Laboratorio REF Ricerche, la tendenza fino al 2023 è quella di una stazionarietà degli investimenti, che dovrebbero attestarsi attorno ai 55 €/ab/anno. La stessa AEEGSI (attualmente ARERA), sempre nella già citata relazione del 2017, stima che l’obiettivo ottimale da realizzare nel corso di un quinquiennio sarebbe quello di far scendere le perdite di rete dal 42% al 33%, un dato ancora troppo alto rispetto al raggiungimento di una situazione accettabile.

Come accennato, poi, le maggiori risorse di investimenti vanno prioritariamente convogliate proprio ai fini della ristrutturazione delle reti idriche. Sempre la relazione del 2017 di AEEGSI (attualmente ARERA), infatti, a proposito degli interventi sulle reti, rileva che “i tassi di sostituzione sono ampiamente inferiori a quelli necessari. In particolare, sulla base degli elementi infrastrutturali che vengono considerati in uso, il timing delle sostituzioni rilevato al 2015 risulta pari a 0,42%, leggermente superiore al valore di 0,39% corrispondente all’anno 2014, ma ancora lontano dal valore del 2.0%, valore coerente con una vita utile tecnica di 50 anni. Considerando la spesa per investimenti, si tratterebbe di passare dai circa 300 milioni di euro/anno, relativi alle sostituzioni del 2015, a circa 1,5 miliardi di euro/anno a regime”. Considerando la necessità di accelerare gli interventi rispetto all’attuale vetustà delle reti e delle inefficienze depurative, non si sbaglia di molto nel valutare il fabbisogno di 2 mld di € l’anno per i prossimi 5 anni, per complessivi circa 10 mld, per dar vita ad un credibile ed efficace Piano nazionale per la ristrutturazione delle reti idriche, delle reti fognarie, degli impianti e dei sistemi di depurazione,fermo restando che per gli anni successivi occorrerà mantenere un livello opportuno di regime degli stessi investimenti.

E’ evidente che le risorse di cui parliamo non possono che provenire, in primo luogo, da una mole significativa di investimenti pubblici e, a questo fine, ci pare necessario che gli stanziamenti da prevedere per il Piano nazionale di utilizzo del Recovery Fund relativamente al tema dell’acqua e del servizio idrico vadano in tale direzione.

Nello stesso tempo, diventa necessario che i soggetti gestori concorrano a tale operazione, tramite la messa a disposizione dei profitti realizzati, sulla base di progetti predisposti dal Ministero dell’Ambiente, scartando, ovviamente, qualunque ricorso in proposito alla leva tariffaria, che, in questi anni, ha già visto un innalzamento molto forte e socialmente ingiustificato. Non sarebbe, infatti, accettabile muoversi secondo una logica, troppo abusata, di “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”.

Prendendo come riferimento lo studio di Monitor SPL “Assetti organizzativi e gestionali del servizio idrico integrato” del 2019, che registra un valore della produzione pari a 9,1 miliardi di euro e un valore aggiunto di 4,5 miliardi di euro, una stima attendibile ci porta a dire che gli utili realizzati nel settore arrivano a circa 6-700 milioni annui. Oppure, analizzando i bilanci cumulati di IREN, HERA e ACEA, le tre più grandi multiutilities protagoniste decisive dei processi di privatizzazione (abbiamo escluso A2A per la poco rilevanza del settore idrico rispetto ai ricavi totali), solo per stare al biennio 2018-2019, si registra che esse hanno prodotto utili stimati nel ramo idrico per circa 830 mln di € e distribuito dividendi pari a 249 mln di €, con una media annua dunque di 124 mln. C’è n’è quanto basta per sostenere che l’utilizzo degli utili dei soggetti gestori può aggirarsi almeno attorno ad un quarto dei 2 mld di € su base annua necessari per mettere in atto il Piano nazionale per la ristrutturazione delle reti idriche. Piano che potrebbe, peraltro, incrementare l’occupazione nell’ordine di diverse decime di migliaia di posti di lavoro.

Riteniamo necessario a questo scopo che la gestione delle risorse del PNRR sia messa in capo al Ministero dell’Ambiente il quale deve svolgere una funzione di promozione e selezione dei progetti da finanziare e ne subordini l’erogazione all’effettivo stanziamento da parte dei soggetti gestori dei profitti prodotti, oltre a esercitare un ruolo di controllo stringente sulle modalità di utilizzo.

In ultimo, dovrà essere posta in essere una disciplina efficace al fine di evitare che tali fondi possano essere in alcun modo caricati in tariffa e quindi andare a pesare ulteriormente sugli utenti.

4.In coerenza con quest’impostazione, a fronte della situazione di emergenza idrica che si è evidenziata in questi ultimi anni e che comunque ha caratteristiche strutturali, per nulla affrontate dalle presunte “efficienti” gestioni private, occorre mettere in campo rapidamente alcuni interventi in grado di aggredirla e dare ad essa soluzioni utili.

L’attuale emergenza sanitaria dimostra, inoltre, la necessità di un approccio innovativo volto alla tutela, alla difesa e alla “cura” (intesa come forma di “interessamento solerte e premuroso per un oggetto, che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività”)dell’acqua e dell’ambiente che si dovrebbe basare sulla partecipazione diretta delle comunità territoriali alle decisioni, in quanto esercizi di democrazia fondamentali per orientare le politiche di sviluppo locale e costruire scenari di giustizia sociale ed ambientale.

La crisi idrica è emblematica e sta facendo emergere le responsabilità di un sistema di gestione caratterizzato da una decennale mancanza di pianificazione e investimenti infrastrutturali perché piegato ad una logica monopolistica e privatistica che punta esclusivamente alla massimizzazione del profitto. Inoltre si è evidenziato come tale sistema sia andato a sovrapporsi al fenomeno del surriscaldamento globale e dei relativi cambiamenti climatici impattando negativamente sulla disponibilità dell’acqua per uso umano, sull’agricoltura e più in generale sull’ambiente.

Tale crisi ci metterà di fronte alla scarsa disponibilità di acque di qualità per l’uso potabile anche a causa dell’inquinamento diffuso causato dal massiccio uso di prodotti chimici in agricoltura, fertilizzanti pesticidi ed erbicidi (ad es. glifosato), dagli scarichi industriali (ad es. inquinamento da PFAS in Veneto e ad Alessandria) e spesso anche quelli domestici non trattati, che hanno ridotto drasticamente le riserve di acqua ‘buona da bere’ e seriamente messo a rischio la salute di centinaia di migliaia di persone. A riguardo segnaliamo che l’istituzione e il rispetto delle aree di salvaguardia dei punti di prelievo e la tutela delle zone di protezione e di ricarica delle falde sono azioni a costo zero e immediatamente attuabili.

Inoltre, è sempre più urgente adottare un principio basilare, quello della prevenzione, cioè dell’uso sostenibile del suolo per fare in modo che la falda non si contamini. Infatti, se non si bonificano le aree contaminate (zone industriali e cave dismesse) e si continuano a usare pesticidi nell’agricoltura intensiva saremo sempre costretti a rincorrere nuovi contaminanti nelle acque senza raggiungere mai un risultato soddisfacente in materia di qualità delle acque per il consumo umano e per la tutela della salute.

Il nostro paese è terra di dissesto idrogeologico come ogni anno ci viene ricordato da ricorrenti catastrofi. La condizione di degrado in cui si trovail territorio da decenni comporta frane, alluvioni, allagamenti in conseguenza di fenomeni naturali come le precipitazioni che il surriscaldamento del pianeta e i conseguenti cambiamenti climatici acuiranno come intensità e frequenza accelerando il ciclo dell’acqua e facendola, quindi, evaporare più rapidamente, rendendo più difficoltosa la ricarica delle falde e favorendo periodi di siccità.

Le attività dell’uomo, quando esercitate in modo sconsiderato, sono tra le cause determinanti: argini cementificati, deviazioni di corsi d’acqua naturali, creazioni di invasi artificiali, disboscamento, abbandono dei territori, consumo di suolo, cementificazione, impermeabilizzazione.

Questi problemi, tra l’altro, non riguardano solo aree periferiche del nostro paese, che avrebbero diritto a ben altra attenzione, ma anche grandi città e aree metropolitane.

Occorre un intervento di respiro e grande qualità che ripari i danni storici con lo sguardo rivolto ai nuovi fenomeni, nella consapevolezza che la gestione rispettosa dell’acqua è alla base della salvaguardia del territorio.

Per risanare e adeguare tutto questo a criteri accettabili per un paese civile e democratico, sono indispensabili risorse adeguate. Questa deve diventare una priorità.

Dopo l’approvazione della legge di bilancio 2021, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha sottolineato che sono stati stanziati 630 mln di € per i prossimi 7 anni per investimenti infrastrutturali, per la tutela del suolo, la mitigazione ambientale, il dissesto idrogeologico.

C’è un abisso rispetto ai dati ISPRA, che dice: “26 mld di € è una stima del fabbisogno teorico per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale, da attuarsi attraverso piani pluriennali di finanziamento”.

Dato che la messa in sicurezza del territorio è uno dei titoli previsti dal Recovery Plan occorre che questa grande opera utile venga messa in condizioni di essere veramente attuata con interventi pianificati su tutto il territorio, con scelte decise anche nei confronti dei piani urbanistici a partire dalla rigorosa definizione delle aree di salvaguardia delle acque destinate consumo umano e dall’inserimento dei misuratori di portata sui prelievi idropotabili per evitare emungimenti dannosi alla falda. E’ necessario migliorare la qualità delle acque superficiali e di falda, intervenire per rinatulizzare i versanti collinari e montani, le sponde di fiumi e canali, restituire ad uso ambientale e paesaggistico naturale di aree compromesse da fabbricati ex industriali ora dismessi e abbandonati.

5.In definitiva, si tratta di mettere in campo un intervento relativo alla “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, che nell’arco dei prossimi 5 annicostruisca investimenti pubblici, tramite il Recovery Plan, nella seguente misura:

  • 2 mld di € per la ripubblicizzazione del servizio idrico, da utilizzare nel primo anno di intervento;
  • 7,5 mld. di € (cui aggiungere risorse provenienti dai soggetti gestori per circa ulteriori 2,5 mld) per la ristrutturazione delle reti idriche;
  • 26 mld. di €(di cui 50% provenienti dal Recovery Plan e il restante 50% da ulteriori fonti di entrata ) per il riassetto idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio.

A titolo esemplificativo proponiamo le seguenti altri fonti:

  • applicazione più onerosa del principio “chi inquina paga”;
  • aggiungere una quota ad hocdel canone di concessione per il prelievo delle acque minerali  e di sorgente destinate all’imbottigliamento;
  • patrimoniale;
  • eliminazione sussidi ambientalmente dannosi (SAD).