Perché non possiamo insistere con modelli di consumo basati sull’usa e getta
Progettare un nuovo imballaggio senza ripensare tutto il ciclo di vita del prodotto, applicando opzioni innovative a basso impatto di carbonio può rivelarsi per le aziende un’occasione persa sotto l’aspetto ambientale ed economico. Cambiare invece l’approccio al packaging andando oltre ad una pura sostituzione del materiale per trovare nuove modalità per fare arrivare i prodotti ai propri clienti può aprire la strada a progetti innovativi in linea con la crisi climatica e di risorse che dobbiamo affrontare.
Quando si tratta di ridurre i rifiuti di plastica, e non si cercano scappatoie come la sostituzione della plastica con altri materiali, il riciclaggio è la strategia su cui si focalizzano gli impegni della maggior parte delle aziende
che lavorano alla sostenibilità del packaging.
Questo perché lavorare sulla riciclabilità, reale o presunta che sia, è di fatto la strategia più semplice da perseguire perché permette alle aziende di non cambiare il modello di business e/o processi produttivi. Condizione che rende più che accettabile per le aziende investire risorse nella ricerca e sviluppo di nuovi materiali che sostituiscano la plastica, e persino sostenere un aumento medio nel costo del packaging del 25-30%, come da stime di esperti del settore. Al contrario, applicare strategie di prevenzione e riuso per il packaging, può comportare in molti casi un ripensamento del prodotto stesso e/o dei modelli di produzione e commercializzazione. Oltre a richiedere il coinvolgimento degli altri attori della filiera di riferimento con il relativo carico di lavoro che rende ogni operazione doppiamente complessa.
Va detto che la crescente attenzione da parte delle aziende alla riciclabilità o compostabilità del packaging è storia recente, che va soprattutto interpretata come una risposta delle aziende alla crescente preoccupazione sull’inquinamento ambientale causato dalla plastica nell’opinione pubblica. In seconda battuta gioca un ruolo importante l’approssimarsi dell’entrata in vigore delle nuove direttive europee del pacchetto Economia Circolare e della Direttiva SUP sulle plastiche monouso. Resta da vedere se i governi le recepiranno conservandone lo spirito e gli obiettivi che vanno nella direzione di un cambiamento dell’attuale modello di consumo, oppure cederanno alle pressioni dei gruppi di interesse. Eventualità poi non così remota come hanno allertato recentemente la Piattaforma Reloop e Zero Waste Europe sulla base di uno studio di Eunomia Research and Consulting.
LIMITI DEL RICICLO
Sebbene il riciclo sia un’opzione preferibile alle varie opzioni di smaltimento, perché permette di produrre uno stesso bene con minori emissioni climalteranti e un ridotto consumo di materie prime ed energia, è evidente che non possiamo affidarci a questa sola strategia . Ma questo vale sia per la plastica che per tutti i materiali di cui facciamo un solo utilizzo.
L’aumento della popolazione e del livello di benessere nei paesi dalle economie emergenti spinge inesorabilmente verso l’alto i consumi, aumenta i ritmi di prelievo di tutte le risorse, accelerando così la distruzione degli ambienti naturali e della biodiversità.
Se consideriamo che la produzione mondiale di plastica è destinata a quadruplicare entro il 2050 (e non solamente per il settore del packaging) è evidente che per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili si deve schiacciare l’acceleratore sulla prevenzione a tavoletta, e a più livelli.
Nel caso della plastica dobbiamo pertanto ridurre al massimo il suo consumo usa e getta e riciclarla tutta perché impiegare plastica riciclata fa risparmiare circa il 61% delle emissioni di gas ad effetto serra rispetto all’utilizzo di plastica vergine.
Questo perché, secondo un recente studio dell’Imperial College quasi due terzi delle emissioni totali di gas climalteranti dovute alla produzione di un manufatto in plastica avvengono durante la fase di estrazione e produzione delle resine. La restante parte delle emissioni (pari ad 1/3) è determinata dalla fase di produzione e smaltimento del manufatto.
Sostituire la plastica con alternative biodegradabili può sembrare in prima battuta un’opzione più sostenibile, se non fosse che anche queste risorse non possono considerarsi illimitate. Un loro utilizzo a pari quantità di consumo richiesta dalla sostituzione delle stesse applicazioni in plastica tenendo conto del trend attuale di maggior consumo di prodotti confezionati significa produrre maggiori impatti ambientali su altri fronti. Ad esempio il crescente consumo di biomasse —che soddisfa la domanda proveniente da più settori come si può vedere dall’infografica— contribuisce, anche attraverso il fenomeno detto IULC Indirect Land Use Changes (cambiamento indiretto dell’uso del suolo) alla deforestazione e conseguente perdita di biodiversità.
Un recente studio dell’Imperial College commissionato da Veolia “Examining Material Evidence the Carbon Fingerprint” ha comparato le valutazioni sul ciclo di vita (LCA) di una settantina di imballaggi di diversa tipologia e materiale. Le prestazioni relative ai diversi imballaggi in termini di emissioni di gas climalteranti rivelano che un puro cambio di materiale non equivale ad un impatto ambientale minore senza interventi sul ciclo di utilizzo di un manufatto.
IL PROBLEMA E’ IL MODELLO DI CONSUMO
Le aziende che hanno sostituito gli imballaggi in plastica non lo hanno fatto, —come verrebbe logico pensare— sulla base di valutazioni del ciclo di vita e di utilizzo delle varie opzioni di packaging. Né tanto meno hanno tenuto conto delle diverse infrastrutture di raccolta e riciclo presenti sui mercati ove l’opzione veniva introdotta, oppure degli sbocchi di mercato per le materie prime seconde originate. Come accennato in apertura le decisioni che hanno portato ad un cambio di packaging sono state spesso intraprese, in risposta al “sentiment plastic free” dell’opinione pubblica che il marketing aziendale ha cavalcato come vantaggio competitivo. Con il risultato che le nuove opzioni non sempre si sono rivelate migliorative sotto il profilo ambientale. Oppure prive di un maggiore impatto economico sul sistema di avvio a riciclo del packaging, che è finanziato in larga parte dai contribuenti. Oltre all’aumento medio del 3% annuo circa nel consumo di imballaggi che le relazioni dei consorzi Conai registrano (quasi) ogni anno ci sono anche studi di settore che riportano nel dettaglio i segmenti di prodotto dove il consumo di alimenti confezionati aumenta. Per quanto riguarda il settore ortofrutta cresce il consumo di prodotto confezionato a peso fisso che rappresenta il 47% del totale venduto dalla Gdo, di prodotti di IV gamma e di Primi Piatti Pronti Freschi (classificati come Ecr -ovvero le zuppe e tutte le loro declinazioni) che vengono principalmente venduti nello scaffale refrigerato. Ad esacerbare l’impatto del packaging c’è l’aumento nelle vendite dei formati monodose che riguarda tantissimi prodotti freschi. La tendenza nei paesi avanzati da anni ormai va in direzione di una costante riduzione dei formati, di pari passo con un’evoluzione sociale che riguarda tanto la dimensione dei nuclei familiari, quanto le abitudini, le modalità e le occasioni di consumo.