Plastica a riciclo zero

Uno sgambetto alla ‘green economy’- Il direttore dell’associazione dei riciclatori, Walter Regis, spiega l’anomalia italiana
La busta del supermercato, la bottiglia di bibita, la confezione dello snack. Imballaggi in plastica che ci passano per le mani ogni giorno e che altrettanto velocemente destiniamo al bidone della raccolta differenziata più vicino. Ma in Italia il senso civico non basta a sottrarre i rifiuti a discariche e termovalorizzatori. Stando ai dati ufficiali consultabili dall’ultima relazione ufficiale sulla gestione del Corepla, il consorzio nazionale per la raccolta il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica, nel 2013 in Italia sono stati immessi a consumo 2 milioni di imballaggi in plastica, ma a fronte di una raccolta al 75% soltanto il 38,6% degli imballaggi viene riciclato, mentre una quota di poco inferiore, il restante 36,8%, viene destinato a recupero energetico. In altre parole tre quarti della produzione viene differenziata, per poi essere divisa pressoché equamente tra incenerimento e trattamento negli impianti della filiera del riciclo. Le cause sono spesso a monte, nella qualità della raccolta nella natura dei materiali, spesso difficili da separare o da trattare.

Ma c’è di più. Walter Regis, direttore di Assorimap (Associazione Nazionale dei Riciclatori e Rigeneratori di Materie Plastiche) ci dice che i problemi partono dalla raccolta che paga “una gestione non professionale, per come è organizzata. Sicuramente inadeguata alla realizzazione di un’economia circolare”. E secondo Regis “Il motivo per cui il sistema non è adeguato sta negli interessi di chi rappresenta il polimero vergine in Italia, che vede nel riciclato un concorrente”. E in effetti produttori e importatori di materia prima, imprese produttrici hanno una posizione dominante all’interno del consiglio di amministrazione del Corepla. Un assurdo se si pensa che è lo stesso consorzio che in teoria dovrebbe gestire e incentivare il riciclo dei materiali, poco meno di un conflitto di interessi a voler pensar male. E Walter Regis lo dice chiaro e tondo: Il Corepla è in mano ai produttori di materia prima e ai produttori di beni, quindi soggetti che hanno interessi opposti allo sviluppo del riciclato che è materia concorrente al polimero vergine”.

D’altra parte chi, messo in posizione di poter gestire le regole del gioco, danneggerebbe i propri affari? Senza dubbio in Italia qualche anomalia c’è. Nel resto del mondo a determinare i destini di questo mercato sono le quotazioni del greggio.
Dopo una caduta libera iniziata nel giugno scorso e che ha toccato il suo picco negativo poco più di un mese fa, a marzo, quando il barile è sceso sotto i 50 dollari, tra Europa e Stati Uniti le imprese che trattano plastica riciclata sono andate in crisi e più di uno stabilimento ha chiuso i battenti. Secondo l’analisi condotta dal ‘Wall Street Journal’, infatti, all’inizio dell’anno sul mercato d’oltreoceano la plastica vergine costava il 15% in più di quella riciclata, ma i rapporti si sono ribaltati fino a rendere la materia riciclata più costosa del 7% rispetto alle resine di nuova produzione. Ad aprile il prezzo del petrolio ha iniziato a risalire e con esso quello dei suoi sottoprodotti. L’esempio statunitense, di fatto, dimostra quanto facilmente le leggi del libero mercato da sole entrino in conflitto con lo sviluppo di un’economia sostenibile, ma in Italia il comportamento dei flussi di mercato sfugge a qualsiasi analisi oggettiva.
Walter Regis, infatti, ci spiega che nel nostro Paese “il prezzo del polimero riciclato insegue il valore del polimero vergine. Con il crollo del petrolio sia le resine nuove che quelle riciclate hanno raggiunto i loro valori minimi, molto vicini tra loro, e a queste condizioni sul mercato sarà sempre il polimero vergine il più appetibile”. Questo perché oltre un certo limite il riciclato non può scendere: è pur sempre un prodotto industriale e deve rispondere al rapporto di economicità tra investimenti e ricavi. Investimenti che consistono soprattutto nei costi di trattamento per la produzione di una materia prima seconda, come vengono definiti i materiali lavorati per essere reimmessi nel ciclo produttivo, che viene derivata da rifiuti.
Anche su questo punto il Corepla ha delle responsabilità, poiché i consorzi obbligatori del Conai in virtù dell’ultimo accordo stipulato con l’Anci, associazione comuni italiani, pagano le amministrazioni comunali in proporzione alla sola quantità di rifiuti raccolti, senza considerare la qualità e l’eventuale tasso di contaminazione dei materiali differenziati. Il che per i riciclatori significa lavorare di più e rischiare di produrre un riciclato meno appetibile sul mercato.
E proprio della qualità del loro polimero i riciclatori italiani hanno fatto un vanto. O almeno hanno ci hanno provato come ci spiega ancora Walter Regis: “In circa dieci anni, dal 2004 ad oggi, il comparto del riciclo nel nostro Paese ha raggiunto una dimensione industriale, mentre la produzione di polimero vergine è calata. In queste condizioni sarebbe stato naturale rivolgersi a noi, ma nonostante il riciclato italiano risponda a standard di qualità altissimi, le potenzialità del nostro prodotto continuano ad essere ignorate. C’è bisogno di cambiare il quadro d’insieme perché a queste condizioni il mercato è drogato”.

Articolo di Giuseppe De Stefano L’Indro.it

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