Il “mondo reale” del Ministro Galletti e lo sguardo lungo di Ségolène Royal
“Domenica andrò a votare e voterò no al referendum“. Così Gian Luca Galletti, ministro dell’Ambiente, intervenendo questa mattina ad Agorà su Rai Tre sul voto di domenica 17 aprile. Per il ministro è ”ipocrita continuare a usare il petrolio ma non volerlo estrarre” mentre ”ci sta bene andarlo a prendere in altre parti del mondo, dove la sicurezza è minore”. Il ministro ragiona poi sul fatto che continuare a usare il petrolio fa parte del ‘mondo reale’: ‘‘prendo atto della situazione e che con il petrolio si muove ancora il 96% della mobilità; non è che posso pensare di vivere in un mondo diverso da quello in cui vivo”
Il ragionamento di Galletti non farebbe una grinza se espresso da un comune cittadino, e per giunta poco informato sul quesito referendario. Quando invece ci si rende conto che così ragiona il ministro all’Ambiente si rischia di cadere dalla sedia. Va detto che una seppur magra consolazione il ministro ce la dispensa dichiarando che andrà a votare. Almeno evita, al contrario del premier Renzi (e larga parte del PD), di incitare gli italiani all’astensionismo , al punto da causare l’intervento del presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi che ha invitato i cittadini ad esprimersi con il voto.
Resta da capire a chi spetta il compito, se non al governo e ai suoi ministri, di disegnare le politiche ambientali ed economiche- a breve e lungo termine- che ci permettano di ottemperare agli impegni presi alla Cop21 di Parigi.
E’ il caso di ricordare al nostro governo che il prossimo 22 aprile capi di Stato e di governo firmeranno l’Accordo di Parigi, risultato della COP 21 sui cambiamenti climatici di dicembre. L’accordo, raggiunto all’unanimità da 195 paesi più l’Unione Europea, rappresenta l’avvio definitivo del passaggio dai combustibili fossili, responsabili principali del cambiamento climatico oggi in atto, alle energie rinnovabili, all’efficienza e al risparmio energetico.
E’ vero che Galletti ci aveva in qualche modo allertato sulle sue competenze dichiarando lo scorso gennaio che non fosse necessario essere per forza geologi o fisici per occuparsi di ambiente, e come prova avesse indicato la sua “grande operazione ambientale” compiuta da assessore a Bologna: la creazione della multiutility Hera e la sua quotazione in borsa. Per fortuna, verrebbe da dire, che a difendere i nostri mari ci pensano i leghisti, invece del PD.
“Votiamo sì per salvaguardare il nostro mare, l’Adriatico, e rispondere così ai bisogni dei cittadini che arrivano prima delle trivelle” ha detto infatti Zaia all’evento Vinitaly di Veronafiere spiegando che “ci sono 350 pescatori della piccola pesca a rischio per le piattaforme petrolifere e quindi molti più posti di lavoro del centinaio di addetti nelle trivelle“, Puglia e Veneto si sono incontrate nel 2012 per firmare il manifesto “No Triv” e “ancora oggi – ha sottolineato Zaia – dura questo gemellaggio“. Anche il ministro francese per l’Ambiente Ségolène Royal, considerando le conseguenze drammatiche che uno sversamento di petrolio può causare in un mare chiuso come il Mediterraneo ha deciso di applicare una moratoria «immediata» sui permessi di ricerca di idrocarburi nei mari francesi e di richiedere «l’estensione di questa moratoria all’insieme del Mediterraneo nel quadro della convenzione di Barcellona sulla protezione dell’ambiente marino e del litorale mediterraneo».
Rispetto a quanto dichiarato dal Ministro- sempre ad Agorà- che una maggiore durata delle concessioni sia garanzia di maggiori investimenti anche in sicurezza è sempre Greenpeace che è intervenuta in giornata a ricordare che, al contrario di quanto ripetutamente affermato dal governo, in Italia la normativa sulle estrazioni in mare è tutto fuorché rigorosa. Nel nostro Paese il legislatore ha deciso che le trivelle sono al 100% “sicure per legge”. Infatti una norma del 2015 (DL 26 giugno, n. 105, ma normative analoghe sono in vigore già dal 2005) esclude le piattaforme petrolifere dalla categoria di “impianti a rischio di incidente rilevante”. Questo significa che le compagnie non hanno l’onere di dimostrare quali accorgimenti sono in grado di adottare per scongiurare, contenere o mitigare sversamenti di ingenti quantità di idrocarburi in mare. Semplicemente perché, secondo il legislatore, un incidente del genere sarebbe impossibile!
Quasi la metà delle piattaforme oggetto del referendum sono state installate prima del 1986, dunque non hanno sostenuto alcun procedimento di Valutazione d’Impatto Ambientale. Infine, delle 135 piattaforme operanti nei mari italiani, solo di 34 sono disponibili i piani di monitoraggio (diffusi per la prima volta da Greenpeace nel rapporto Trivelle Fuorilegge): stando a una nota dell’ENI, le oltre 100 rimanenti sarebbero esenti da monitoraggi. Sul loro impatto ambientale non esiste dunque alcuna stima o misurazione ufficiale. Il Ministero dell’Ambiente, dal canto suo, non ha mai chiarito le ragioni dell’indisponibilità dei dati. Perciò questi impianti risultano al momento al di fuori di qualsiasi controllo.
La mancanza di controlli è evidenziata anche dai fatti di cronaca. Come emerso di recente, la piattaforma Vega, nel Canale di Sicilia, ha trasferito per 18 anni le acque contaminate derivanti dal processo di estrazione di petrolio a una nave appoggio che, illegalmente, iniettava questi reflui (assieme alle acque di sentina e alle acque di lavaggio della nave stessa) in un pozzo petrolifero sterile, alla profondità di circa 2.800 metri. Si parla di poco meno di mezzo milione di metri cubi di acque inquinate con metalli, idrocarburi e altre sostanze chimiche. Una discarica in mare a cui è seguita, anziché una sanzione, l’autorizzazione da parte del Ministero dell’Ambiente a realizzare nuovi pozzi di estrazione e una nuova piattaforma.
Di prossima uscita un documentario Italian Offshore presentato in anteprima ieri sera a Piazza Pulita. Si tratta di una video inchiesta sul mondo dell’estrazione di idrocarburi nei mari italiani. In quattro capitoli, di circa 12 minuti l’uno, vengono trattati quattro casi emblematici dei problemi causati da questa attività. Uno sversamento nascosto per anni, l’inquinamento causato dalle acque di produzione, l’abbassamento del suolo e il miraggio occupazionale sono indagati attraverso reportage in mare e con l’utilizzo di fonti inedite e interviste esclusive.
Galletti sempre ad Agorà ha dichiarato che gli incentivi di cui hanno goduto le fonti rinnovabili hanno avuto effetti distorsivi sul mercato. Se così fosse perché non si mette mano al quadro completo degli incentivi inclusi quelli di cui godono le fonti fossili stimati da Legambiente in 147 miliardi annui e gli impianti di incenerimento? L’economia circolare- evocata a sproposito da Galletti in varie occasioni- implica il fare un uso efficiente delle risorse attraverso una progettazione sistemica. Non significa certamente distruggere le materie prime quanto riutilizzarle in nuovi cicli produttivi al fine di conservare il loro valore economico il più a lungo possibile. Purtroppo sino a che i lobbisti delle fonti fossili potranno agire indisturbati all’interno dei ministeri, gli interessi delle comunità virtuose, e di tutti quei settori che potrebbero dare vita ad un’economia verde e sostenibile, non avranno grandi possibilità di avere voce in capitolo nelle decisioni che li riguardano.
Se guardiamo invece oltre confine il panorama cambia; ci sono nazioni che stanno pianificando un’uscita dalle fonti fossili. Ci sono ministri all’ambiente e allo sviluppo economico impegnati da tempo in progetti trasversali ai dicasteri all’insegna dell’economia circolare, dell’efficienza energetica, delle energie rinnovabili e della mobilità sostenibile che stanziano risorse e promuovono legislazioni incentivanti per una transizione ecologica. Parliamo di Francia, Olanda, Belgio, Scozia.
In Italia abbiamo sentito da parte del governo solamente grandi promesse circa misure incentivanti per la green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali, che però ancora non si sono concretizzate in alcun provvedimento.
Mentre l ‘Olanda ha indicato nell’economia circolare e nella qualità dell’aria le sue priorità per la sua presidenza di turno della UE in corso, l’Italia corre il rischio di vedere morire in cambio di royalties risibili le sue bellezze naturali e la salute dei suoi cittadini a causa di un’assoluta mancanza di visione strategica sul futuro del paese da parte dell’attuale governo ( e non solo). A differenza dell’Italia, l’Olanda ha un Piano energetico che arriva fino al 2050 e che coinvolge aziende, istituzioni della conoscenza e agenzie governative. Nel 2013 l’Olanda ha approvato l’accordo per l’energia per la crescita sostenibile, che definisce come soddisfare il suo fabbisogno di energia fino al 2023.
Anche lo spettro della disoccupazione è stato utilizzato per far credere agli italiani che votando SI si metterebbero immediatamente per strada gli oltre 13.000 lavoratori dell’intero settore quando parrebbero invece circa 70 i lavoratori occupati dalle piattaforme interessate dal quesito referendario. Come evidenziato nell’ultimo rapporto della società Deloitte, ci ricorda Legambiente che il 35% delle compagnie petrolifere è ad alto rischio di fallimento nel 2016 a causa del crollo del prezzo del petrolio e di un debito accumulato complessivamente di 150 miliardi di dollari. Al contrario, il settore delle rinnovabili e dell’efficienza sono in forte crescita e con norme e politiche adeguate potrebbero generare almeno 600mila posti di lavoro: 100mila al 2030 nel solo settore delle energie rinnovabili – circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia. Per le politiche volute dagli ultimi governi ed aggravate dal governo Renzi, nel 2015 si sono persi circa 4 mila posti nel solo settore dell’eolico e 10mila in tutto il comparto. L’unico modo per garantire un futuro occupazionale duraturo è quello di investire in innovazione industriale e in una nuova politica energetica.