Lotta alle microplastiche nelle acque: non c’è tempo da perdere
Anche se alcune sono impossibili da individuare ad occhio nudo le microplastiche che infestano le acque del pianeta rappresentano una minaccia da affrontare con urgenza
L’Inghilterra verso un bando delle microsfere e l’Italia rimanda al 2020
Studi recenti hanno evidenziato che se non viene ripensato il modo in cui gestiamo la plastica – che ha prodotto nei decenni un inquinamento fuori controllo e perdite economiche incalcolabili a diversi livelli-, avremo al 2030 più plastica che pesci nei mari. Eppure la plastica è un materiale che presenta innumerevoli vantaggi e che potrebbe portare occupazione e benessere qualora gestito in un sistema economico circolare. Perchè allora continuiamo a sprecarla ? Uno dei motivi è quello che la plastica costa generalmente poco e quindi viene semplice buttarla o sprecarla. In realtà il prezzo della plastica è sempre stato basso perché non racchiude i costi generati dalle esternalità negative che il materiale causa lungo tutto il suo ciclo di vita. Non sono infatti i produttori/utilizzatori di plastica, ma l’ambiente, le comunità e la società intera a pagare il conto degli impatti economici e sanitari causati dal consumo e dall’attuale gestione lineare della plastica. Un secondo motivo è imputabile all’azione del mondo della chimica e dei produttori di plastica che hanno da sempre impostato e imposto una gestione lineare della plastica poichè funzionale al loro interesse di produrre sempre più plastica a prezzi bassi per spingere le vendite. Va anche detto che da sempre le associazioni di categoria ed aziende leader dei due settori non hanno mai accettato politiche e legislazioni volte a limitare l’utilizzo di imballaggi e contenitori “usa e getta” da parti di Governi locali o nazionali, ricorrendo anche alle aule dei tribunali per fare prevalere i propri interessi. Allo stesso tempo l’industria della plastica non ha mai collaborato realmente con gli operatori del riciclo poichè considerati possibili concorrenti nella loro veste di produttori di granulo plastico riciclato. Una gestione circolare della plastica chiude i conti con queste dinamiche e richiede la collaborazione di tutti i soggetti portatori di interesse all’interno di filiere di materiali closed loop, dove il cerchio del valore viene chiuso a livello locale.
QUALCHE NUMERO SULLA PLASTICA
La produzione di plastica globale è aumentata negli anni di circa l’ 8% ogni anno crescendo nell’arco di 50 anni di 20 volte. Passando cioè dalle 15 milioni di tonnellate del 1964 alle 311 milioni di tonnellate del 2014. Si prevede un raddoppio del consumo attuale nei prossimi 20 anni e una sua moltiplicazione per 4 al 2050. Se guardiamo al solo comparto del packaging delle 78 milioni di tonnellate di packaging immesso al consumo il 72% non viene recuperato. Mentre il 40% va in discarica il 32% sfugge ai sistemi di raccolta “legali”. Questi sono solamente alcuni dei dati raccolti nel report The New Plastics Economy: Rethinking the future of plastics prodotto dal World Economic Forum (WEF) e dalla Ellen MacArthur Foundation (EMF) che dovrebbero spingere le aziende a partecipare al complesso e articolato piano di intervento globale che prevenga i peggiori scenari previsti in caso di inazione e di perseguimento del “business as usual”.
INDUSTRIA LATITANTE
Nonostante l’inquinamento da plastica e microplastiche minacci seriamente mari ed oceani, come ha ribadito di recente lo stesso Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, i decisori aziendali mostrano di non conoscere o sottovalutare, in quale misura le proprie aziende concorrano a determinare l’impatto globale della plastica sull’ambiente.
A questa conclusione è arrivato uno studio condotto dalla EUR Erasmus University Rotterdam sotto la guida di un panel di esperti in CSR che ha sondato il livello di conoscenza da parte dei responsabili di CSR aziendali circa l’utilizzo di plastica nelle loro aziende, e dei rischi per l’ambiente che derivano da una gestione inefficace del materiale.
Lo studio ha rivelato che solamente il 15% dei manager, è in possesso delle informazioni necessarie per poter essere in grado, sia di prevenire possibili dispersioni di plastica nell’ambiente, che di mettere in campo politiche di gestione sostenibile della plastica utilizzata dalle aziende nei processi produttivi, di commercializzazione e post vendita dei propri prodotti e imballaggi. Sul seguito dei risultati dell’inchiesta è nata in Olanda un’iniziativa volta a sviluppare un sistema che permette alle imprese di misurare la propria “impronta plastica”. Lo strumento promosso da Plastic Soup Foundation (PSF), Impact Centre dell’EUR e PwC fornirà la conoscenza necessaria per interventi di prevenzione e riduzione dell’impatto ambientale e per disegnare un ciclo di vita più circolare della plastica. Un progetto simile negli intenti, denominato Plastic Disclosure Project , è stato lanciato qualche anno fa negli USA.
MICROPLASTICHE TOSSICHE
Numerosi studi hanno purtroppo confermato che gli oceani e tutte le acque del pianeta sono sempre più simili ad una zuppa di plastica formata da piccoli frammenti polimerici che sono per lo più il risultato della degradazione dei rifiuti plastici finiti in acqua che avviene con il passare del tempo.
Accanto a questa tipologia di microframmenti ci sono altre fonti di inquinamento da microplastiche nelle acque che sono invece imputabili all’industria della plastica, della cosmetica e del tessile. In ordine di menzione abbiamo il pre-prodotto dell’industria plastica: minuscoli granuli polimerici ( nurdles o plastic pellets in inglese) dispersi nell’ambiente durante il trasporto verso le industrie trasformatrici, le microsfere di polietilene contenute in cosmetici e detergenti per il loro effetto esfoliante, e i minuscoli frammenti tessili che si staccano dai tessuti sintetici durante i lavaggi. A causa delle dimensioni infinitesimali essi sfuggono sia ai filtri delle lavatrici che degli impianti di depurazione delle acque.
Diversi studi hanno confermato come le tipologie di plastica dispersa in acqua e in particolare le microplastiche assorbono come spugne le sostanze chimiche inquinanti disperse nelle acque che si accumulano nella plastica in concentrazioni maggiori rispetto a quelle presenti nelle acque. Sostanze chimiche pericolose come i policlorobifenili (PCB) o gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA o PHA in inglese) sono state trovate nei campioni analizzati in concentrazioni sino ad 1 milione di volte superiore a quella contenuta nelle acque dove sono stati prelevati. Oltre a diventare dei vettori dell”inquinamento marino questi frammenti tossici vengono ingeriti dagli organismi marini e, prima o poi, arrivano nei nostri piatti attraverso i prodotti ittici che consumiamo.
ll rischio per l’uomo è amplificato dalla capacità di questi contaminanti di bioaccumularsi negli organismi, di concentrarsi cioè in quantità sempre maggiori nei tessuti degli organismi marini che ingeriscono microplastiche: dallo zooplancton ai molluschi, crostacei e pesci sempre più grandi. E, come se non bastasse, la plastica potrebbe minacciare ancora più seriamente il livello di produzione ittica qualora le larve di pesce di più specie preferissero nutrirsi di plastica, invece che di zooplancton,come uno studio recente ha rivelato .
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