Non salveremo la Terra con una “migliore “ tazza di caffè usa e getta
Dobbiamo sfidare le corporazioni che ci inducono a vivere in una società usa e getta piuttosto che cercare modi “più verdi” per mantenere lo status quo
Editoriale di George Monbiot – Ambiente/ Opinioni- The Guardian
Credi nei miracoli? Se è così, accodati in ordinata fila. Sono molte le persone che immaginano di poter perpetuare gli attuali stili di vita, a condizione che si sostituisca un materiale (dannoso) con un altro. Il mese scorso, una richiesta indirizzata a Starbucks e Costa di sostituire le tazze di caffè in plastica con tazze compostabili derivate dall’amido di mais è stata ritwittata 60.000 volte, prima di venire cancellata.
Coloro che hanno sostenuto questa richiesta non sono arrivati a chiedersi come si ricava l’amido di mais, quanta terra sarebbe necessaria per produrlo, o quanta produzione di mais dedicata al consumo umano dovrebbe essere sostituita. Oppure hanno trascurato gli effetti collaterali della coltivazione del mais, nota per causare l’erosione del suolo e richiedere spesso dosi massicce di pesticidi e fertilizzanti.
Il problema non è solo la plastica: ma piuttosto quante risorse abbiamo a disposizione e quante ne servirebbero per mantenere il modello di consumo attuale (con una popolazione in crescita). Per dirla in altre parole come possiamo perseguire con un solo pianeta a disposizione stili di vita che richiederebbero le risorse di quattro pianeti. Indipendentemente da ciò che consumiamo, sono le dimensioni abnormi dei nostri consumi che stanno sopraffacendo i sistemi naturali della Terra.
Non fraintendetemi. La nostra fame di plastica è un grave problema ambientale e le campagne per limitarne l’uso sono ben motivate e talvolta efficaci. Ma non possiamo affrontare la nostra crisi ambientale scambiando una risorsa sovrasfruttata con un’altra. Quando ho contestato la richiesta fatta alle catene di caffetterie alcune persone mi hanno chiesto: “Allora cosa dovremmo usare ?”
La domanda giusta sarebbe stata “Come dovremmo vivere?” Ma il pensiero sistemico è come una specie in via di estinzione.
Parte del problema è stato alimentato da iniziative che hanno dato vita a campagne “anti-plastica” come la serie Blue Planet II di David Attenborough. Mentre i primi sei episodi avevano narrazioni forti e coerenti, così non è stato per il settimo che ha tentato, balzando da un argomento all’altro, di spiegare le minacce che incombono sulle meravigliose creature marine. Nonostante fosse presente nel documentario il messaggio che si può “fare qualcosa” per evitare la distruzione della vita oceanica, non veniva spiegato come farlo. Mancavano anche spiegazioni sulle cause dei problemi, su quali forze ne fossero responsabili, e su come queste ultime potessero essere affrontate.
Nel clima di incoerenza generale venutasi a creare, un opinionista ha affermato: “Il che significa, credo, che ognuno di noi debba prendersi la responsabilità delle scelte quotidiane che si intraprendono “. (It comes down, I think, to us each taking responsibility for the personal choices in our everyday lives. That’s all any of us can be expected to do).
Questo pensiero ben rappresenta l’errata convinzione che una migliore forma di consumismo potrà cambiare il pianeta. I problemi strutturali che stiamo affrontando in realtà sono : un sistema politico ostaggio di interessi commerciali e un sistema economico che persegue una crescita infinita.
Certo, dovremmo cercare di minimizzare i nostri impatti, ma non possiamo affrontare queste forze semplicemente “assumendoci la responsabilità” per ciò che consumiamo. Sfortunatamente, questi sono questioni che la BBC in generale e David Attenborough in particolare, evitano. Nutro ammirazione per Attenborough in molti ambiti, ma non sono un fan del suo ambientalismo.
Dopo essere passato inosservato per molti anni, quando finalmente ha parlato, per evitare di sfidare il potere ha utilizzato argomenti vaghi o si è concentrato su problemi non direttamente riconducibili all’azione di interessi potenti. Questa sua linea di azione potrebbe spiegare perché alcune imprescindibili questioni non sono state sollevate nel suo ultimo documentario.
La più palese è la responsabilità dell’industria della pesca nell’aver trasformato quelle forme di vita marina stupefacenti, svelate nelle precedenti puntate della serie, in CIBO da consumare. Il settore ittico, trainato dai nostri appetiti e protetto dai governi, sta causando un collasso ecologico dei mari a cascata . Eppure l’unica attività di pesca di cui il documentario si è occupato rappresenta l’1% del totale delle attività in cui si verificava un recupero degli stock ittici.
Anche la plastica presente nei mari è in gran parte una conseguenza delle attività di pesca. Si è scoperto infatti che il 46% della spazzatura del Great Pacific Patch – che è diventato il caso emblematico della nostra società “usa e getta” – è composta da reti e gran parte del resto deriva da altri tipi di attrezzi da pesca. Gli attrezzi da pesca abbandonati tendono ad essere molto più pericolosi per la vita marina di altre forme di rifiuti. Se guardiamo ai sacchetti e bottiglie in plastica che contribuiscono al disastro dei mari, la stragrande maggioranza proviene dalle nazioni più povere che non hanno sistemi efficaci di smaltimento dei rifiuti. Ma siccome queste considerazione non sono state fatte, le soluzioni sono state cercate nei posti sbagliati.
Da questo depistaggio sorgono mille “perversioni“. Una nota ambientalista ha pubblicato su twitter una foto di gamberoni comprati in un supermercato Tesco convincendo l’addetta del reparto a metterli nel suo contenitore riutilizzabile, piuttosto che nella plastica, collegando il suo gesto alla protezione dei mari.
Tuttavia il consumo di gamberetti causa danni alla vita marina di molto superiori a quelli causati da un qualsiasi tipo di plastica in cui sono avvolti. La pesca dei gamberetti ha i più alti tassi di catture incidentali di qualsiasi altro tipo di pesca, tra cui un gran numero di tartarughe e altre specie minacciate di estinzione. L’allevamento dei gamberi è altrettanto impattante perché distrugge intere zone di foreste di mangrovie, vivai cruciali per migliaia di specie.
Come consumatori veniamo tenuti notevolmente all’oscuro di tali problemi. Siamo confusi, ingannabili e praticamente impotenti – il potere delle corporazioni aziendali ha fatto di tutto per persuaderci a vederci in questo modo. L’approccio della BBC alle questioni ambientali è altamente partigiano poiché si schiera con un sistema che ha cercato di trasferire quelle che sono le responsabilità di “forze strutturali” sui singoli consumatori.
Eppure è solo come cittadini che intraprendono azioni politiche che possiamo promuovere un cambiamento significativo. La risposta alla domanda “Come dovremmo vivere?” È: “Semplicemente“.
Ma vivere semplicemente è molto complicato. Nel libro di Aldous Huxley, Il mondo nuovo (Brave New World) il governo massacrava i Simple Lifers. Questo al giorno d’oggi non è più necessario: possono venire tranquillamente emarginati, insultati e licenziati. L’ideologia del consumo è così diffusa che è diventata invisibile: è la marea di rifiuti in cui nuotiamo.
Vivere in un unico pianeta significa non solamente cercare di ridurre il nostro consumo, ma anche mobilitarsi contro il sistema che promuove una grande marea di spazzatura. Ciò significa combattere il potere delle multinazionali, cambiare i risultati politici e sfidare il sistema basato sulla (continua) crescita che consuma il pianeta e che noi chiamiamo capitalismo.
Ecco una conclusione tratta dal documento di Hothouse Earth del mese scorso, che allertava sul pericolo di portare il pianeta in un nuovo stato climatico irreversibile: “I cambiamenti lineari incrementali … non sono sufficienti per stabilizzare il sistema Terra. Saranno probabilmente necessarie trasformazioni diffuse, rapide e fondamentali per ridurre il rischio di varcare la soglia del non ritorno”.
Le tazze di caffè usa e getta prodotte con nuovi materiali non sono solamente una “non soluzione”: sono una perpetuazione del problema. Difendere il pianeta significa cambiare il mondo.
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