Quando neanche il riciclo chimico aiuta: il caso emblematico dei sachet

Tra soluzioni reali e presunte

Anche se nel nostro Paese e in Europa non avviene un utilizzo massivo dei sachets ci siamo occupati di questo packaging in diversi articoli a partire dal 2017, anno in cui le diverse multinazionali iniziarono ad aderire al programma della Ellen McArtur FoundationThe New Plastic Economy.
Multinazionali come Unilever, Nestlè, Coca Cola , P&G (Ambition 2030) lanciarono di conseguenza programmi in cui si impegnavano di contribuire al miglioramento dei sistemi di raccolta dei rifiuti nei mercati dove erano presenti, e soprattutto in quei Paesi maggiormente responsabili della dispersione in mare dei rifiuti.

Tra le azioni svelate da Unilever che mi lasciarono un pò perplessa e ne scrissi in un articolo del 2018 rientrava proprio questo progetto, che non avrebbe certamente offerto una mitigazione in tempi brevi alle 1.300 tonnellate di rifiuti che l’Indonesia scarica in mare ogni anno, contribuendo ad alimentare il marine litter.
La scelta fatta da Unilever di affidarsi ad una tecnologia per gestire rifiuti problematici ex post la portai infatti come un esempio di come le aziende tendano in genere a scavalcare le azioni prioritarie della gerarchia dei rifiuti EU come prevenzione e riuso, strategia che mi portò a sollevare una serie di inevitabili domande che riprendo integralmente a seguire.
“Ammesso che Unilever possa aprire degli impianti di riciclo basati su questa tecnologia nei paesi dove commercializza i sachets, come pensa la multinazionale di intercettare questi piccoli rifiuti senza un incentivo economico per chi li conferisce, e in mancanza di infrastrutture logistiche capillarmente diffuse sul territorio per gestire i flussi raccolti ? Chi dovrebbe sviluppare, progettare e gestire l’avvio a riciclo di questo flusso di rifiuti e sostenerne i costi ? Come fare in modo che siano disponibili le quantità necessarie per alimentare regolarmente gli impianti di riciclo e raggiungere economie di scala? E infine, anche ammesso che si possano venire a creare questi presupposti, quale sarebbe l’impatto ambientale ed economico complessivo di questa scelta comparato con opzioni alternative di fornitura per piccole dosi di prodotto che potrebbero essere messe in campo ? “

Il problema dell’inquinamento causato dai sachets è da tempo noto ed è stato ripreso dai media, forse non abbastanza. Già in un articolo del 2012 del Guardian intitolato “Lotta allo spreco dei sachet nei mercati in via di sviluppo” Unilever illustrava i suoi piani (e anche in un video ) per risolvere il problema, accennando all’opzione del riciclo chimico. Dieci anni sono passati ed il problema è ancora irrisolto.

Come risolvere il complesso puzzle creato dall’inquinamento da plastica

Quando si parla di trovare soluzioni adatte a Paesi che non hanno infrastrutture di raccolta rifiuti non vi sono altre strade percorribili che istituire per legge regimi di responsabilità estesa del produttore (EPR), finanziati, ma anche gestiti dagli stessi produttori/utilizzatori di imballaggi, e soprattutto nei paesi in cui non ci sono in capo al governo le competenze e le risorse economiche necessarie per occuparsene.

Mi riferisco ovviamente a regimi di EPR efficaci capaci di intercettare percentuali altissime dei flussi dei rifiuti ai quali si rivolgono (Depositi cauzionali per imballaggi in primis ). Particolare impegno e attenzione va dedicata agli imballaggi problematici immessi al commercio ad alta dispersione nell’ambiente, come i sachet. Tuttavia, se vogliamo lavorare alla transizione verso un’economia circolare – e non verso un’economia del (solo) riciclo – serve applicare un’innovazione di sistema, prima che agire sui soli materiali. Questo perché la sostenibilità di un prodotto viene misurata ( e determinata) dal suo ciclo di utilizzo all’interno di un sistema, e non certamente dal materiale in cui è realizzato. Con innovazione di sistema mi riferisco in particolare allo sviluppo e e implementazione di modelli di commercializzazione dei beni basati sulla dematerializzazione del packaging da parte delle aziende, in collaborazione con i rivenditori.

Questi “modelli di consumo circolari” creano benefici ovunque applicati, ma sono quanto mai necessari in quei Paesi dal basso reddito e senza infrastrutture di trattamento dove le multinazionali hanno appositamente introdotto i sachet. Per continuare a soddisfare l’esigenza di acquisto di piccole quantità nella formula “quanto basta” le multinazionali come Unilever potrebbero investire nella creazione di refill station diffuse capillarmente dove le persone acquistano la quantità di prodotto che possono permettersi di pagare.

Il messaggio in busta per Unilever , Procter & Gamble, Colgate Palmolive…

Per arrivare alle conclusioni finali mi servo di uno scambio di tweet avuto con Paul Polman l’allora Ceo di Unilever, che prendeva spunto da una sua dichiarazione fatta congiuntamente alla Fondazione Ellen McArthur durante il World Economic Forum di Davos del febbraio 2018: Le quattro cose che l’industria che utilizza plastica deve fare per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica”.

In risposta al mio tweet in cui gli riproponevo le quattro cose che avrebbero dovuto fare come Unilever, mi rispose gentilmente, come si può leggere. A dire il vero, lasciando stare la questione sachet, alcune delle mie proposte sono state in parte confermate da progetti successivamente partiti.

A cominciare, ad esempio dall’adesione di Unilever con alcune delle sue marche alla piattaforma online Loop, e a progetti di refill nei supermercati attuati in collaborazione con alcune insegne del retail. Questi ultimi anche in Paesi come le Filippine, l’Indonesia e altri paesi del Sud est asiatico che, insieme alla Cina, contribuiscono maggiormente al problema dei rifiuti marini. Unilever ha realizzato progetti di refill anche in collaborazione con Algramo (al grammo) start up cilena che ha sviluppato progetti basati su contenitori riutilizzabili per l’acquisto di prodotti alimentari e non, pensati proprio per un pubblico con poca capacità di spesa.

Progetto pilota di Refill di Siklus e Indonesian Waste Platform in Labuan Bajo

Questa breve panoramica sulle azioni di Unilever intraprese nello sviluppo di modelli di business circolari introducono anche la soluzione per il problema dei piccoli sachet, ma anche di imballaggi simili che sfuggono ai sistemi di raccolta e finiscono dispersi nell’ambiente. Pertanto la strategia maestra per gli “imballaggi impossibili” è quella dell’eliminazione diretta , che può avvenire attraverso la vendita di piccole quantità di prodotto solido che non necessita di packaging monouso, oppure con contenitori riutilizzabili. Per quei casi limitati in cui i prodotti monodose sono realmente necessari si possono usare allora imballaggi edibili e biodegradabili. Ma c’è un ma ed un limite per questa opzione che non possiamo fingere di ignorare, è cioè che più aggiungiamo e allunghiamo i processi produttivi di uno specifico prodotto a scaffale, e più ne complichiamo il confezionamento consumando più materiali per avere monodosi, più ne aumentiamo l’impronta complessiva di carbonio. Ecco come la ricerca della sostenibilità di un materiale può trasformarsi in un percorso che va ad alimentare l’insostenibilità di un intero sistema/modello di consumo.

(2) CreaSolv® Process è un marchio registrato di CreaCycle Gmbh, una tecnologia sviluppata in collaborazione con il Fraunhofer Institute in Germania che si ispira all tecnica utilizzata nel riciclo dei televisori.

 

CONTINUA A LEGGERE >>

Leggi anche