Quando neanche il riciclo chimico aiuta: il caso emblematico dei sachet
Il caso emblematico delle bustine monodose, difficili da raccogliere e riciclare efficacemente, ci insegna che un imballaggio che non può essere ridotto, riusato e riciclato andrebbe eliminato dal mercato.(1)
Un‘indagine della Global Alliance for Incinerator Alternatives (GAIA) sul progetto di riciclo chimico CreaSolv® dei sachet intrapreso da Unilever in Indonesia, ha rivelato che le aspettative su una loro presunta riciclabilità sono state totalmente mal riposte. Infatti, a soli due anni di distanza dal lancio in pompa magna dell’impianto pilota avvenuto nel 2017, la multinazionale anglo-olandese ha concluso in silenzio le operazioni, a causa delle insormontabili sfide poste dal progetto di ordine tecnico, logistico e finanziario.
I sachet sono piccole confezioni monodose contenenti in genere detergenti o alimenti che vengono commercializzate da Unilever e altre multinazionali, prevalentemente nei mercati in via di sviluppo ed emergenti, come nel caso dell’Indonesia. Si tratta di piccoli imballaggi particolarmente problematici, bustine costituite da strati di diversi materiali, adesivi e coloranti che ne rendono praticamente impossibile il riciclaggio, e che vengono facilmente dispersi nell’ambiente. In Indonesia le bustine, nonostante le loro ridotte dimensioni, costituiscono il 16% dei rifiuti di plastica, pari ad una produzione di rifiuti di 768.000 tonnellate all’anno.
Il lancio del progetto di riciclo chimico CreaSolv® (2) rientrava tra le iniziative sviluppate da Unilever per raggiungere gli obiettivi globali di riduzione di un terzo del packaging entro il 2020 (in peso) e di aumentare l’utilizzo di contenuto di plastica riciclata nel packaging di almeno il 25% entro il 2025.
Per rendere l’ordine di grandezza dell’impatto ambientale del packaging dei diversi marchi che fanno capo a Unilever, è utile considerare due diverse fonti di notizie. La prima è quella riferita alla performance sul packaging di Unilever in quanto partecipante al Global Commitment della Ellen McArthur Foundation (EMAF).
Il consumo di plastica che la stessa multinazionale ha fornito agli autori dell’ultimo Progression Report del 2021 ammonta a 690.000 tonnellate di materie plastiche da imballaggio immesse al mercato annualmente. Altri dati che si possono trovare nella scheda di Unilever presente nel rapporto e riferiti al 2020 sono: la percentuale media di contenuto riciclato (11%) rispetto a quello in materia vergine presente nel packaging immesso al consumo, e la percentuale media in cui si attesta il packaging di Unilever (52% : poco più che a metà strada ) rispetto all’obiettivo di avere il 100% del packaging riciclabile, compostabile o riutilizzabile, entro il 2025. Sulla percentuale di riuso attuale non sono stati invece forniti dati. Tuttavia, come avverte la nota Not aligned (in rosso ) il dato del 52% non è verificabile secondo la metrica comune adottata dalla EMAF che Unilever non ha condiviso. (Fig.1)
L’altra prospettiva da cui guardare all’impatto ambientale delle marche è quella del contributo che ha il loro packaging sul littering – ovvero i rifiuti dispersi nell’ambiente a loro marchio – che non è un dettaglio di poco conto. Unilever è passata dal quarto al terzo posto – dopo Coca Cola e Pepsi Co – nella poco ambita classifica dei Top 10 Corporate Plastic Polluters 2021, ovvero delle aziende che maggiormente contribuiscono alla formazione del littering. A stilare questa classifica concorrono le centinaia di analisi di brand audit dei rifiuti dispersi raccolti nei vari paesi del mondo compiute da volontari ogni anno, secondo linee guida di reportistica condivise.
Invece di ascoltare le richieste della società civile – si legge nel comunicato stampa di Gaia – che chiedevano di interrompere la produzione di bustine e creare e perseguire soluzioni a zero rifiuti come il riutilizzo e i sistemi di ricarica, Unilever ha avviato una campagna di pubbliche relazioni per la promozione della sua “tecnologia innovativa CreaSolv” che sarebbe stata la prima al mondo in grado di riciclare e riutilizzare i rifiuti di imballaggio in plastica multistrato a testimonianza del suo impegno verso lo “sviluppo di nuovi modelli di business a supporto dell’economia circolare del packaging “.
I principali riscontri dell’indagine di GAIA
Nelle sedici pagine dell’indagine si legge che Unilever si era posta l’obiettivo di raccogliere 1.500 tonnellate di questi rifiuti nel 2019 per trattarli nell’impianto e 5.000 tonnellate nel 2020. Obiettivi che si sono rivelati irraggiungibili, tant’è che il programma è stato chiuso nel dicembre del 2019, a distanza di soli due anni dall’inizio delle attività. La brusca interruzione del programma di riciclaggio delle bustine ha privato dei mezzi di sussistenza i waste pickers coinvolti nella raccolta delle bustine, causando un certo sconcerto tra tutte le parti coinvolte nella raccolta e nel trattamento di questi rifiuti. Alcune delle banche di stoccaggio dei sachets hanno persino continuato a ricevere il materiale raccolto per qualche mese dopo la chiusura del progetto, materiale che ha poi dovuto essere bruciato o mandato in discarica.
Tra le informazioni sul funzionamento dell’impianto che si trovano nel documento si legge che, per mantenerne l’operatività, si sarebbe dovuto produrre tre tonnellate di pellet in plastica al giorno, con la prospettiva di aumentare la capacità produttiva giornaliera sino a cinque tonnellate. Tuttavia, dopo la fase pilota iniziale, la capacità massima di produzione di granulo idoneo (al riprocessamento) dell’impianto non superava ancora le cinque tonnellate circa al mese.
A questo ritmo ci sarebbero voluti ben 12.800 anni per essere in grado di trattare le quantità di rifiuti generate annualmente dai sachet in Indonesia. Quand’anche si fosse arrivati ad una capacità di trattamento di 27 tonnellate di rifiuti al giorno – l’obiettivo finale di Unilever – ci sarebbero voluti più di 77 anni per trattare i rifiuti prodotti in un anno dai sachet.
Dieci milioni di euro spesi per mancare gli obiettivi…
L’obiettivo di riciclare le bustine multistrato per creare nuove bustine non è stato raggiunto dal punto di vista tecnico anche a causa della bassa riciclabilità dei sachet, e dei limiti tecnologici dell’impianto. Condizioni che hanno influito sulla produzione di scarti di processo importanti (anche da smaltire), nell’ordine del 40 – 60% , tanto da rendere l’operazione totalmente insostenibile. La costruzione dell’impianto è costata a Unilever più di 10 milioni di euro dal 2011. I processi di triturazione e la cattiva gestione dei liquidi tossici che venivano a formarsi hanno causato, si legge nell’indagine, incidenti alla struttura, tra cui l’incendio sviluppatosi nel febbraio del 2018 in un magazzino. In quell’occasione le 300 tonnellate di bustine stoccate sono letteralmente “andate in fumo” avvolgendo in una densa coltre di fumo nero i quartieri circostanti.
La storia dei sachet inizia in India negli anni 80
La bustina monodose, come riporta un interessante articolo The fading shimmer of sachets , che ne ricostruisce la storia, fa la sua prima apparizione in India negli anni ’80, ben prima dell’ingresso nel mercato del colosso industriale Unilever, attraverso la sua controllata Hindustan Unilever Limited (HUL) . Il pioniere dei sachet denominato “The King of sachets” è stato in realtà il dott. C K Rajkumar. Fu lui l’imprenditore, morto un paio di anni fa, ad introdurre negli anni ottanta il primo shampoo in bustina (Velvette). Da allora il mercato degli shampoo in bustina è cresciuto a passi da gigante in India. Stime indicano che il 70% del valore di vendita dello shampoo in India avvenga attualmente tramite i sachets. Tuttavia, senza l’adozione di questo packaging da parte delle multinazionali dei prodotti di largo consumo, il mercato dei sachets non avrebbe raggiunto le dimensioni attuali. Infatti, secondo uno studio del 2009 , a trenta anni dall’avvento dei sachets la loro penetrazione nel mercato indiano valeva solamente il 14%.
L’espansione delle vendite di prodotti di cosmetica e detergenza nei contesti rurali di Unilever attraverso la controllata HUL viene raccontata in un interessante articolo dell’Harward Business Review “How Unilever Reaches Rural Consumers in Emerging Markets” del 2016.
(1) In ricordo di Pete Seeger (May 3, 1919 – January 27, 2014) . “If it can’t be reduced, reused, repaired Rebuilt, refurbished, refinished, resold , recycled or composted Then it should be restricted, redesigned or removed from production”.
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