Plastica: sostituirla è facile e comodo per tutti ma non basterà…

Sostituire la plastica con altri materiali senza eliminare o ridurre il consumo monouso rischia di spostare solamente gli impatti ambientali da una risorsa all’altra. Il modello di consumo attuale, fatto di pasti pronti dall’antipasto alla frutta, di cibo da asporto ordinato online, di prodotti che viaggiano da una parte all’altra del pianeta, di alimenti che devono avere una data di scadenza il più lontano possibile nel tempo, ha la responsabilità sul consumo smodato di plastica. E’ principalmente la plastica che, nel bene e nel male, ha reso possibile questo modello e ora sono diventati “una cosa sola”.  Uscirne richiede ripensare i nostri stili di vita e i modelli economici che ci permettono di essere consumatori H24,  e di diffidare sempre dei facili slogan.     

Premetto che questo è un post scritto a due mani, nel senso che dopo una mia introduzione segue un articolo del giornalista David Burrows sugli ultimi trend del packaging ai tempi del plastic-free che ho deciso di tradurre perché ne condivido l’analisi e le considerazioni.
Mi riferisco al tema delle proposte di packaging che stanno arrivando  dalle aziende in risposta a un comune sentire che ha messo la plastica sul banco degli imputati, e non solo quella dal ciclo di di vita breve. Che sia “giusto” o meno ci si è arrivati dopo un percorso di informazione, comunicazione (oltre che di inevitabili semplificazione e facili slogan)  partito nel 2016, quando è uscito il primo rapporto The New Plastics Economy (NPE) della Ellen McArthur Foundation.

Il rapporto è stato il punto di partenza di un programma triennale di iniziative tra cui:  la pubblicazione di “The NPE:  Catalysing Action ” una road map con le strategie da perseguire per attuare un’economia circolare per la plastica,  iniziative nazionali come i Plastic Pacts  o internazionali come il Global Commitment un impegno globale per prevenire rifiuti e inquinamento da plastica (alla fonte).
Da allora, sotto la spinta di campagne di informazione portate avanti dai media e associazioni ambientaliste, e di un’opinione pubblica sempre più preoccupata sulle conseguenze di una contaminazione ambientale da plastica, sono nate molteplici iniziative promosse da enti locali, aziende e altri svariati soggetti mirate alla plastica . Ho fatto il punto sulle iniziative italiane in due precedenti articoli che si trovano nella sezione “letture correlate” di questo post.
La preoccupazione che domina l’opinione pubblica sugli effetti dell’inquinamento da plastica non è solamente giustificata, ma difficilmente esauribile perché ci saranno sempre nuovi studi, con nuovi dati ed evidenza sul fenomeno ad alimentarla. L’ultimo studio reso noto pochi giorni fa ha rilevato che al largo delle Hawaii, nelle zone di gestazione dei pesci, la quantità di plastica presente nelle acque supera quella dei pesci di circa 7/8 volte. Se guardiamo alle concentrazioni di plastica trovate in alcune zone del nostro Mediterraneo  risulta evidente che c’è ben poco da stare allegri, perché il fenomeno è ormai di portata globale.

Siamo arrivati, purtroppo, al momento in cui la natura ci presenta il conto di una situazione scappataci di mano già decadi fa quando, a fronte dei primi studi negli anni settanta sulla plastica in mare, nessuno è intervenuto, avendo tutti pesantemente sottovalutato la cosa. Per “tutti” mi riferisco alla mancata assunzione di responsabilità di soggetti come l’industria della plastica, che ha speso ingenti somme di denaro per contrastare ogni tipo di misura che potesse regolamentare o ridurre il consumo di plastica, l’industria dei beni di largo consumo e del retail, che non si sono preoccupate di immettere grandi quantità di plastica in paesi privi dei sistemi più basici di gestione dei rifiuti, l’industria delle bevande che si è opposta ai sistemi di deposito cauzionali e vuoto a rendere per i contenitori, sino ad arrivare al cittadino che abbandona i rifiuti dove capita.
La cosa più preoccupante, per coloro che hanno una chiara idea di quello che bisognerebbe fare da subito a livello di politiche nazionali e locali, e di cosa dovrebbe fare l’industria in attesa che tali politiche vengano tradotte in misure legislative, è che si sta facendo troppo poco e soprattutto non le azioni più giuste e urgenti.
Come si può leggere nell’ultimo rapporto di monitoraggio dei progressi compiuti dalle aziende che hanno aderito al Global Commitment (che conta oltre 400 membri) prevalgono soprattutto azioni di sostituzione della plastica nel packaging con altri materiali oltre che di miglioramento del grado di riciclabilità degli imballaggi in plastica (azione necessaria ma non risolutiva a se stante). Fatta eccezione per alcuni progetti, come la piattaforma di e-commerce Loop basata sull’impiego di imballaggi riutilizzabili,  e di alcuni progetti pilota di vendita di prodotti sfusi da parte di retailers,  ancora pochi sforzi sono stati fatti nella direzione di una prevenzione e riduzione dei rifiuti da imballaggio.

Questo trend indica che, a meno di non inserire le misure di contrasto alla plastica monouso in un programma che includa tutte le tipologie di imballaggio e materiali (cosa che non si sta facendo a partire dall’Italia concentrata sul plastic free) , si corre davvero il rischio di provocare un massiccio spostamento verso altri materiali con un possibile aumento degli impatti ambientali a livello di consumo di risorse ed emissioni di Co2. (1) Senza parlare dei potenziali effetti collaterali per le filiere del compostaggio e del riciclo che si trovano già a dover fronteggiare un incremento di manufatti che hanno sostituito le opzioni in plastica come gli imballaggi in poliaccoppiato difficilmente riciclabili per le cartiere e in bioplastiche compostabili per gli impianti di compostaggio. Impianti questi ultimi che non sono ancora attrezzati a gestire imballaggi, stovigliame, capsule da caffè e altri manufatti soprattutto qualora presenti oltre ad una certa soglia rispetto alle quantità di scarto organico,  e che pertanto, subiranno le conseguenze di scelte ambientalmente insensate. Tra le conseguenze indesiderate un aumento del livello di confusione tra gli utenti ed operatori della filiera dell’organico ed un aumento dei conferimenti errati sia nel flusso delle plastiche fossili, che dell’organico. La scelta della Grande Distribuzione, capitanata da Federdistribuzione,  di sostituire da subito o entro giugno 2020 lo stovigliame in plastica a scaffale (senza una concertazione con altri soggetti della filiera),  ha dato/darà un contributo importante a questo fenomeno. Aggiornamento 22 gennaio 2020 : Uscito il documento di posizionamento di Utilitalia sulla gestione delle bioplastiche che ben riassume tutte le criticità che gli impianti di compostaggio incontrano nel momento attuale

Dalla lettura di media internazionali ho rilevato che esiste un ampio dibattito pubblico e un livello di informazione sui media più “avanzato” sul tema “plastica e dintorni” rispetto al nostro paese. Tra questi c’è il Regno Unito, probabilmente perché hanno un più alto consumo di piatti pronti e cibo/bevande da asporto (con maggiori rifiuti prodotti da questo flusso) oltre ad un sistema di gestione dei rifiuti da imballaggio poco performante. Su questa situazione, che contava sull’export di rifiuti da imballaggio per almeno il 60% del raccolto ha colpito pesantemente la chiusura dei porti a questi rifiuti da parte della Cina, e degli altri paesi asiatici che hanno seguito l’esempio della Cina.
Ecco perché ho deciso di proporvi una traduzione dell’articolo di David Burrows  “The single-use substitution scandal “che, anche se contiene qualche riferimento alla situazione inglese, tratta di alcune dinamiche che non sono solamente rilevabili nel Regno Unito.

Anche quando afferma che “le imprese e i consumatori sono esposti a forme di greenwashing che derivano sia da iniziative da parte di alcune ONG che da “regolamentazioni anti-plastica” come si può evincere dagli esempi portati nell’articolo.

Silvia Ricci

The single-use substitution scandal

di David Burrows*

Ball Corporation, un fornitore di imballaggi in alluminio inizierà a costruire un impianto da $ 200 milioni (in sterline £ 155 milioni) in Georgia, Stati Uniti per produrre tazze monouso in alluminio.

Anche se non hanno ancora comunicato le quantità di tazze che verranno prodotte nel nuovo sito, saranno sicuramente quantità importanti.
Queste tazze verranno utilizzate un po’ ovunque: pub, università, ristoranti e mense e nella maggior parte dei casi sostituiranno i bicchieri o tazze di plastica. Seconda il comunicato stampa di Ball l’impiego di questi manufatti in alluminio è buona cosa, dato che “l’alluminio è il materiale di imballaggio per bevande più sostenibile e che lattine, bottiglie e tazze possono essere facilmente riciclate“.

Se uno si chiedesse chi ha stabilito che l’alluminio sia il materiale più sostenibile la risposta è Ball. Si evince anche dalle affermazioni del suo presidente e AD, John Hayes che dichiara “Stiamo sentendo sempre più clienti e consumatori che vogliono fare la cosa giusta per l’ambiente e hanno bisogno di più opzioni”.

 

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