Un programma circolare per la plastica: riprogettazione e riuso
RIPROGETTAZIONE PER IL 30% DEL PACKAGING
La prima strategia consiste nella riprogettazione di un segmento che seppur costituendo la metà dell’immesso al consumo (come unità) e il 30% in peso, non può essere riutilizzato o riciclato a seguito delle sue caratteristiche progettuali. Si tratta di imballaggi di più tipologie che includono: i piccoli formati in genere (involucri, pellicole per snack e merendine, tear-off, tappi, flaconcini); imballaggi in poliaccoppiato (composti cioè da una sovrapposizione di materiali eterogenei); imballaggi contaminati da residui di cibo, come ad esempio i contenitori per fast-food; imballaggi in PVC, polistirene (PS) e polistirene espanso (EPS), alcune delle plastiche poco utilizzate presenti nel mercato degli imballaggi e dal basso valore post-consumo.
Il packaging di dimensioni inferiori ai 400-700 millimetri prima descritto, tra cui rientrano anche i popolari flaconcini di probiotici, finisce nel sottovaglio degli impianti di selezione e viene generalmente incenerito come scarto. In America APR (Association of Plastic Recyclers) ha annunciato lo scorso novembre 2016 di voler trovare delle soluzioni per intercettare e riciclare questo flusso. Nello studio si stima che dimezzando le perdite di packaging in questa tipologia, (circa il 10% in peso del packaging in plastica immesso al consumo), si potrebbe recuperare un valore economico di 50-70 dollari per ogni tonnellata gestita. Gli imballaggi in plastiche poco usate per il packaging rappresentano un altro 10% in peso dell’immesso al consumo di cui l’85% è costituito dalle plastiche prima citate: PVC, PS e EPS .
Anche se tecnicamente queste plastiche potrebbero essere riciclate non sussistono le quantità necessarie per permettere economie di scala e per rendere economicamente sostenibile un’attività di riciclo. Senza contare che i contenitori in EPS usati nel settore alimentare sono spesso contaminati dal cibo e pertanto difficilmente riciclabili. Inoltre queste plastiche possono contaminare altri flussi e causare danni economici all’economia del riciclo. Ad esempio il PVC, oltre a contenere sostanze pericolose per la salute, se finisce nel flusso del PET può minare la qualità del riciclo anche quando presente in quantità minime (0.005% in peso), e gli imballaggi in EPS creano a loro volta problemi al riciclo delle poliolefine ( polipropilene PP, polietilene PE, ecc).
Gli imballaggi in poliaccoppiato rappresentano un mercato in ascesa come abbiamo raccontato in questo post un po’ in tutto il mondo. Sia nella versione “stand up poach” che come sachet, bustine monouso usate soprattutto nei mercati emergenti per commercializzare piccole porzioni di creme e detergenti per la casa e la cura della persona. Questi imballaggi, che non sono riciclabili poiché composti in genere da materiali eterogenei come plastica e alluminio, rappresentano uno spreco di risorse e fonte di rifiuto importante nei paesi emergenti.
Alcune delle azioni suggerite per questo segmento che maggiormente necessita di una riprogettazione sono: l’eliminazione dei piccoli formati, l’utilizzo di monomateriali riciclabili, di materiali separabili, oppure di materiali compostabili, sempre tenendo conto della necessità di avere sistemi di raccolta dedicati e l’esistenza di impianti di compostaggio per gestirli a fine vita. Ogni azione di cambiamento deve essere infatti valutata in modo sistemico visto che non esiste un’unica soluzione “vincente” di packaging commercializzabile in tutto il mondo perché i sistemi di gestione dei rifiuti e del packaging post consumo variano da paese a paese.
In aggiunta a queste azioni servirebbe per i poliaccoppiati effettuare ulteriore ricerca circa i limiti e potenzialità di altre soluzioni tecniche ai fini di un recupero del materiale per nuovi cicli produttivi come il riciclo chimico o la pirolisi. Tuttavia -si legge nello studio- va considerato che queste tecnologie al momento sono altamente energivore, non possono raggiungere le performance di mantenimento del valore dei materiali proprie del riuso o del riciclo meccanico, e che ci sono ancora alcuni punti interrogativi circa una loro complessiva efficacia sul piano tecnico. Gli sviluppi tecnologici correnti si stanno invece per lo più limitando ad esplorare l’opzione del recupero del materiale come combustibile (non rinnovabile). Un’opzione che, secondo lo studio, si traduce in una perdita definitiva del materiale e nel perpetuarsi del modello lineare di estrazione-produzione-smaltimento. (1)