All’industria della plastica conviene cambiare pelle

L’industria del beverage ha immesso quantità sempre maggiori di contenitori in plastica in contesti geografici dove ancor oggi non esistono sistemi post consumo di gestione dei rifiuti (lascia stare riciclo) adeguati. Il risultato è che quasi il 60% della plastica che finisce negli oceani arriva da paesi asiatici come Cina, Indonesia, Filippine, Tailandia e Vietnam. (1)

Ad oggi, l’industria della plastica ha investito a livello internazionale risorse finanziarie consistenti nel tentativo di combattere qualsiasi legislazione da parte di governi nazionali o locali volta a ridurre, tassare o bandire il consumo di imballaggi usa e getta.

Per evitare in particolare che venissero adottati sistemi di deposito su cauzione, l’industria del beverage ha intentato cause legali contro governi locali o nazionali oppure minacciato di cancellare sponsorizzazioni in essere con istituzioni pubbliche. Un’altra nota strategia dell’industria messa in atto anche in tempi recenti per bloccare o ritardare l’entrata in vigore di un deposito su cauzione (o altre legislazioni che potessero contrarre i consumi) è quella di impegnarsi in  una serie di azioni volontarie: di riduzione del littering, piuttosto che di incremento della raccolta/riciclo, oppure di mettere a disposizione dei governi risorse finanziarie per specifici progetti correlati.

Purtroppo queste iniziative, monitorate a livello locale e internazionale negli anni da Ong o istituzioni governative si sono dimostrate inefficaci e non hanno sicuramente portato a miglioramenti nel design per il riciclo. Fanno parte di questa categoria di promesse anche i vari progetti pilota di riciclo di determinati flussi di imballaggi problematici per il riciclo, anche quando lanciati in pompa magna di solito si concludono in un nulla di fatto dopo aver interessato qualche quintale di materiale. Questo vale per l’Italia e non solo.

Sempre in Inghilterra pare che si stia arrivando più vicini ad una possibile adozione del deposito su cauzione da quando la Coca Cola sta collaborando nell’individuazione del sistema più adatto per il Regno Unito, che potrebbe essere il modello norvegese. Anche in Francia qualcosa si muove, parrebbe sempre in accordo con la multinazionale.

Evidentemente gli obiettivi del piano di Coca Cola “world without waste” ,che includono l’arrivare a raccogliere al 2030 una quantità di contenitori che sia pari rispetto all’immesso al consumo,  richiede un ripensamento dei sistemi di raccolta.

Alla luce di quanto esposto è evidente che l’industria produttrice ed utilizzatrice di plastica avrebbe ora più che mai l’interesse e l’occasione di cambiare completamente strategia, avviando una nuova fase di ascolto e di collaborazione con tutti gli stakeholder della filiera. Ciò diventa inoltre necessario sia per raggiungere i nuovi obiettivi di riuso e riciclo contenuti nel pacchetto di nuove direttive europee in materia di rifiuti e di economia circolare, che per cercare di trasformare la chiusura delle frontiere cinesi ai rifiuti plastici in un’opportunità ambientale ed economica per l’Europa. Le municipalità non possono continuare a dover raccogliere (in larga parte a spese dei contribuenti ) degli imballaggi che non hanno valore, e che ormai non trovano nel nostro paese neanche più posto negli inceneritori.

Credit Plastic News

Lo studio e programma, The New Plastics Economy prima citato ha prodotto lo scorso anno un dettagliato piano d’azione, Catalysing Action, che offre delle soluzioni mirate a specifici imballaggi e polimeri, riprese nella recente Strategia sulla Plastica che sta spronando l’industria ad impegnarsi concretamente. Oltre 11 multinazionali (e non solo) aderenti al programma hanno annunciato lo scorso gennaio specifici obiettivi da perseguire entro il 2025. Tra gli impegni più efficaci resi noti per favorire la circolarità nell’impiego di materia vi sono l’utilizzo di imballaggi realizzati con un solo polimero e con l’impiego del 100% di plastica post consumo.

Per concludere prendo in prestito alcune citazioni di un interessante articolo di Rocco Renaldi che commenta la prima citata Strategia europea sulla plastica, resa nota dalla Commissione Europea lo scorso 16 gennaio. (2)

Il brano in virgolettato si riallaccia ad un’osservazione fatta dall’autore nell’articolo circa i principali limiti del metodo di analisi del ciclo di vita dei prodotti (LCA) su cui spesso si basano le scelte aziendali, anche per il packaging. Un primo limite evidenziato è che una quantificazione dell’impatto ambientale è più verosimile se riferita a casi specifici, visto la variabilità di fattori e dati di partenza che entrano in gioco. Pertanto l’LCA non funziona altrettanto bene quando adottato come strumento per definire politiche aziendali generali. In secondo luogo l’ LCA può solo tenere conto di quegli aspetti del ciclo di vita che sono quantificabili – e molte esternalità ambientali non lo sono. Un esempio calzante è il costo ambientale/economico causato dai rifiuti marini.

La sfida maggiore per l’industria consisterà nel riuscire non solamente a preservare la funzionalità di prodotti e imballaggi in un’economia di consumo altamente competitiva,  migliorando la riciclabilità e i tassi di riciclo, ma nel ridurre allo stesso tempo sia la quantità che le tipologie di materiale utilizzati. Per fare un reale passo in avanti: se oggi preservare la “funzionalità” è un’azione scontata, la sfida per domani sarà quella di come reinventare la funzionalità stessa di un prodotto, avendo prima incorporato un approccio di economia circolare nella sua fase di ideazione/progettazione. Questo sarà in futuro l’aspetto più interessante di questo dibattito.”

Silvia Ricci

(1)Stemming the Tide -Ocean Conservancy and McKinsey Center for Business and Environment, 2015.

(2) EU Strategy on Plastics: The Promise and the Pittfalls – Rocco Renaldi (Landmark Public Affairs)

Una versione ridotta dell’articolo è stata pubblicata sul nostro blog di Tuttogreen La Stampa

 

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